Lynda Benglis. Materialità di genere
Il 6 febbraio a Wakefield, nel cuore del Regno Unito, a qualche chilometro a sud di Leeds, inaugura la più estesa retrospettiva mai dedicata in Europa all’artista e icona femminista americana. Oltre cinquanta lavori a testimonianza della sua longeva, molteplice espressività.
All’età di 73 anni, l’artista di origini greche ma naturalizzata americana è una fra gli autori viventi che ha significativamente modificato, reinventato gli scenari e le barriere tra pittura e scultura negli Stati Uniti, attraverso il suo primigenio, inedito utilizzo di plastiche plasmabili, cere sperimentali e latex liquidi; materiali di cui si è servita come tramiti, per raccontare la politica femminista attraverso le pratiche di un’immagine del modellamento del sé.
Lynda Benglis (Lake Charles, 1941) è oggi una fra le testimoni più autorevoli ed esplicita dei nuovi approcci mediali, sperimentali nel momento dell’ascesa di Pop Art, Minimalismo ed Espressionismo astratto. Il Museo di Wakefield sta non solo per ripercorrere i passaggi più noti della sua intensissima produzione, ma sta anche per ricreare un clima culturale totale, in cui la sua nota posa da pin-up con tanto di occhiali da sole e dildo (pubblicata nel 1974 su Artforum) verrà a diretto contatto con i lavori di alcuni suoi ex studenti come Cindy Sherman.
Da dove nasce la tua curiosità nello sperimentare nuovi materiali e superfici? Come la tua formazione culturale e artistica in Louisiana si è nutrita e ha sviluppato il tuo lavoro?
In Louisiana non ci sono rocce, ma c’era sempre molto fango. In Mississippi c’era tanta sabbia e argilla, così fin da piccola sono sempre rimasta a contatto con questi materiali e con le loro consistenze. Viaggiando verso il Golfo del New Mexico sono sempre rimasta vicina alla terra, grazie a una casa nella quale ho abitato in mezzo alle risaie, dai 5 fino ai 13 anni e poi grazie anche alla successiva residenza, costruita proprio in mezzo a una foresta. In Louisiana la mia immersione non solo nella natura, ma anche nel territorio, è stato un fattore molto importante per me. Andare in Mississippi e avere accesso a differenti tipi di ambienti, di ecosistemi e di elementi di natura mi ha permesso di realizzare le mie prime sculture, fatte di sabbia e di argilla.
Poi nel 1964 ti sei trasferita a New York. Quale nuova atmosfera, quale clima di libertà, quale nuovo mondo hai trovato? Chi furono gli artisti che hai incontrato e quelli con i quali hai lavorato? Furono tutti energia per le tue cosiddette little bombs?
Barnett Newman è stato sicuramente l’artista più importante per me. Barney e Annalee sono state le prime persone che mi sono sembrate larger than life. Ho ammirato molto quell’uomo, sua moglie e il modo attraverso il quale si supportavano a vicenda. Erano davvero persone grandi, in tutti i sensi, nella vita come nel loro lavoro di artisti. Newman aveva un carattere forte e voleva convincermi a tutti i costi che il Minimalismo dovesse apparire, nelle sue manifestazioni formali, come una sorta di atto divino, proveniente dall’interno di se stesso.
Prima di questo incontro, ero stata una fervente ammiratrice di Pollock, ma poi, a causa delle forti convinzioni di Newman, mi convertii, grazie forse anche a un piccolo multiplo che lui un giorno espose con Joseph Cornell. Assieme erano due poli opposti che avevano trovato una sorta di unione, una vicinanza a partire da diversi mondi. Newman sfidava in ogni modo lo spettatore. Quel famoso multiplo che mi colpì era composto come un’entità di plastica termoformata. Aveva una zip che lo attraversava nel mezzo, dei toni blu su blu, e che lo chiudeva verso il basso. Era una sorta di struttura che sfidava chiunque ad alzare quella zip per cercare di capire che cosa potesse esserci dentro e di quale materiale si trattasse. All’apparenza avrebbe potuto sembrare un multiplo di Kulicke. Questo lavoro cambiò e vinse per sempre la mia idea di quel che l’arte avrebbe dovuto essere o sembrare.
Newman un giorno produsse una serie di stampe nel New Haven attraverso Sam Wagstaff, le aveva intitolate The Stations of the Cross. Mi chiamò e me le mostrò in casa sua, gliele avevano appena consegnate. Quando lui le aprì per la prima volta, all’entrata del soggiorno, il suo appartamento si trasformò in una sorta di vignetta di Thurber, tutto cambiò: dalla poltrona di pelle al divano, dagli stucchi alle travi in profilato, che lui aveva racimolato in pile e che più tardi avrebbe fuso in bronzo – erano gli unici oggetti che teneva in soggiorno. Fu una sensazione incredibile.
Nel ripostiglio Newman cappello e cappotto, suo padre era un venditore di abbigliamento maschile. Annalee, invece, vestiva negli Anni Sessanta come se fosse rimasta una ragazza degli anni Quaranta: indossava scarpe basse con uno strappo sul piede, vestiti sempre accollatissimi e portava i capelli separati al centro, pettinati su due lati e fermati con due mollette per ciascuna parte.
A proposito invece di Night Sherbet (1968) e Baby Contraband (1969), da dove trae origine la loro sensualità?
Per quanto riguarda Night Sherbet, le piscine fosforescenti rappresentavano tanto una reminiscenza della natura, delle fonti idriche, quanto un ricordo di luci particolari, quasi mistiche, che avevo visto fuoriuscire da una casa dei divertimenti e dei piaceri sul lago Ponchatrain. Mettendo assieme entrambe le esperienze volevo ricreare l’illusione di quel che sembrava essere un flusso naturale e che invece oggi compare dalla superficie di un pavimento, visualmente manifesto con intensi colori e pigmenti fluorescenti che spandono ovunque, anche quando le luci sono spente.
Baby Contraband invece è un dipinto in latex al quale ho fatto ricorso quando ho scoperto che il formato dei dipinti con le losanghe di cera non soddisfacevano più il mio bisogno di creare flussi marmorizzati. Istintivamente avrei voluto versare direttamente la cera sul pavimento, ma il materiale non si sarebbe mai prestato alla versatilità che stavo cercando. Poi mi venne in mente il cuoio, anche perché la cera su cuoio dà vita a un dipinto che sembra pelle. E ogni dipinto sarebbe diventato una seconda pelle che mi avrebbe permesso di lavorare su diversi formati.
In seguito ho iniziato a voler marmorizzare la cera utilizzando il fuoco come se fosse stato un pennello. E la superficie dermica che avevo creato, finalmente cominciò a scorrere sul pavimento. Così decisi di passare a lavorare le mie pelli versando latex e pigmenti direttamente sul pavimento e che questo sarebbe stato il mio supporto espressivo, al posto della cera. La superficie e la membrana che potrebbero ricoprirla restituiscono perfettamente un’immagine al significato al quale tengo molto di eliminazione della forma.
Potresti spiegare come hai imparato a lavorare l’argilla e il poliuretano? Li modelli seguendo le stesse tecniche?
La mia familiarità con l’argilla comincia da bambina e si è poi sviluppata a scuola al Newcom College, quando ho deciso di intraprendere il corso di ceramica e ho scoperto che realizzare con le mie mani imperfette ciotole compresse e color corallo sarebbe stato più interessante che usare il tornio. Usavo le dita per modellare l’argilla in profondità, per poi tornare in superficie cercando di realizzare lastre perfette, per provare a realizzare strutture quasi prefabbricate, componenti architettoniche. Più tardi, all’incirca venticinque anni fa, per caso sono tornata a lavorare l’argilla a Santa Fe, durante un workshop con alcuni studenti dell’Accademia, ritrovando interessante il materiale e riprendendo a collaborare con Saxe-Patterson; poi, più tardi ho cooperato anche con Carol Jaques a Tucson, Arizona.
Per quanto riguarda il poliuretano, invece, ricordo di aver incontrato il leggendario MP Medwick, semplicemente sfogliando l’elenco telefonico. Lui aveva un’azienda chiamata Adhesive Products. Era stato un consulente di guerra in merito ai materiali plastici utilizzati in Europa, durante il secondo Conflitto Mondiale. Ha inventato moltissimi tipi di materiali plastici malleabili, vincendo numerose cause per difendere i propri brevetti. Con lui ho creato un pacchetto di prodotti che avrebbero potuto essere plasmati grazie a tecniche scultoree comunemente usate. I suoi prodotti erano assolutamente maneggevoli e permettevano un’incursione nelle densità, secondo diversi gradienti e grazie a differenti quantità di pigmenti. Non appena lui trovava una nuova formula, io gli ordinavo il materiale e lo interpretavo.
Un giorno venni contattata dal Rubber Department che aveva visto un mio lavoro pubblicato su Life, assieme a Eva Hesse, Richard Van Buren e Richard Serra. Sembrava di essere in un film con Humphrey Bogart, ero sicura che, data la segretezza, fossero spie della CIA. Mi fornirono un materiale inedito, innovativo da testare nello studio di un piccolo museo all’Ithaca College. Io realizzai un lavoro direttamente sul pavimento, aggiunsi diverse libbre di pigmenti fluorescenti e, al termine, venni spesata di tutto, con estrema puntualità. Poi il lavoro venne fotografato e stampato sulla copertina della loro rivista, una sorta di catalogo commerciale mondiale, così divenni la loro all American girl.
Che cosa ha ispirato, di volta in volta, le scelte dei colori? Potresti cortesemente fornire degli esempi?
In verità non c’è nulla da dire del colore, anche se c’è tutto da dire. Il mio lavoro ne è un esempio.
Una volta hai dichiarato che sei un’artista permissiva, che lasci accadere le cose. Ma come ti definiresti, come delineeresti in breve il tuo percorso e le tue pratiche?
Un’informale formale.
Parlando di Female Sensibility (1973), potresti ricordare da dove ti è nata l’ispirazione, l’idea per girare questo video?
La pellicola è stata girata all’Hunter College. Allora insegnavo alla Scuola di Arti Visive e allo stesso tempo seguivo alcuni corsi. In quel college si era costituito un dipartimento di nuovi media molto fornito, ma nessuno pareva esserne interessato, così cominciai in completa solitudine a sperimentare le attrezzature a disposizione. Warhol aveva già realizzato un film che avevo concepito solo nella mia mente, sul bacio. Ma per una serie di coincidenze incontravo il fondatore della Factory molto spesso, a tutte le feste alle quali ero invitata. Così un giorno decidemmo, quasi di comune accordo, di conoscerci e lui mi propose, nel giro di qualche minuto, di far parte di un suo film. Voleva riprendere me e il mio compagno di allora, Gordon Hart, un pittore scozzese, mentre facevamo l’amore. Io ho subito rifiutato, perché non volevo diventare un oggetto di Warhol. Ma da quel momento ho cominciato a pensare: e se fossi diventata l’oggetto di me stessa, il mio oggetto, che cosa mi sarebbe piaciuto raccontare sulla società del mio tempo? Ero molto conscia del contesto, la rivoluzione sessuale stava per arrivare.
Poi mi venne chiesto di insegnare al Cal Arts. Stavo viaggiando avanti e indietro, dalla California a New York, da quasi otto anni. Così accettai e come professoressa divenni molto seguita. Avevo moltissimi studenti che mi osannavo e io, a mia volta, incoraggiavo loro. Ero una sorta di pifferaio magico. La colonna sonora di Female Sensibility era stata tratta parola per parola dalla radio, saltando di argomento in argomento, a seconda delle stazioni attraversate. Era stata registrata con il mio Sony Ghetto Blaster, includendo il gracidare delle rane di Topanga e poi definitivamente assemblata nello studio di Gwynn Murrill.
Come è cambiata, come è evoluta nel tempo la tua idea di femminilità? E che cosa dire della sfida nel rappresentare i diversi generi sessuali?
Nulla mi sembra molto cambiato, in realtà. Ero stata cresciuta per essere molto educata e femminile, e lo sono ancora, solo che non desidero placare le mie energie e il potere della mia voce femminile con l’intenzione di nascondere o non esprimere le mie idee. Il mio pensiero deve essere continuamente sviluppato e accresciuto. Altrimenti chi mai crederebbe in qualcosa? Giocare un ruolo è divertente. E spesso il teatro delle nostre vite ci sfida a provare le nostre maschere.
Potresti esprimere un pensiero che accompagni la tua prima retrospettiva inglese presso gli spazi dell’ Hepworth Wakefield?
Ritengo che l’artista dovrebbe solo seguire il proprio lavoro. Non si può controllare il flusso di pensieri e opinioni degli altri. Ci ho provato e sono rimasta scottata, sconvolta perché ho capito di essere stata malamente interpretata. Questo fatto succede molto spesso. Ho anche provato ad avere molta pazienza, ma ho scoperto di non averne poi tanta. Eppure amo la luce dell’Inghilterra, mi piacciono gli inglesi, li trovo sensuali. Sembra che loro racchiudano un mondo intero nella loro mente e nelle loro parole. C’è qualcosa di immenso nelle loro proiezioni e nel modo in cui pronunciano i loro pensieri. La testa e la bocca sembrano essere le parti del loro modo d’essere più importanti, come nel canto e nel cinguettio degli uccelli. Loro possiedono il dono di saper come andare avanti, tramandando, raccontando davvero buone storie.
Ginevra Bria
Wakefield // dal 6 febbraio al 5 luglio 2015
Lynda Benglis
THE HEPWORTH
Gallery Walk
+44 (0)1924 247360
[email protected]
www.hepworthwakefield.org
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