In piazza per Charlie Hebdo. La guerra non santa: terrorismo e democrazia
Dopo giorni di paura e di sparatorie, Parigi è scesa in piazza. Uomini delle istituzioni di tutto il mondo hanno sfilato accanto al Presidente Hollande e al popolo francese. Abbiamo fatto delle fotografie. Abbiamo messo in fila dei pensieri. E abbiamo salvato l’unica immagine possibile, da consegnare al ricordo di Charlie Hebdo: la forza della democrazia, contro terroristi, sciacalli e comprimari
È stata la domenica di Charlie Hebdo. Terminata la maratona degli inseguimenti e le 54 ore di terrore, spentosi l’incubo delle sparatorie, dei sequestri, dei quartieri asserragliati, delle forze di polizia sui tetti e nelle strade, dei morti, dei feriti, dei sopravvissuti; finito tutto (o quasi), con l’uccisione di tre dei quattro terroristi islamici più uno in fuga, la strage che ha colpito il settimanale satirico di rue Nicolas Appert ha avuto il suo epilogo. Di lacrime, di rabbia e anche di reazione.
Tutti in piazza a Parigi, domenica 11 gennaio, per ripetere ancora e ancora “Siamo tutti Charlie Hebdo”. E per difendere libertà e democrazia, ridendo in faccia alla paura. Grande dispiegamento di uomini, va da sé, per proteggere l’immenso corteo, ma con tutta la voglia di esserci e di alzare una muraglia umana in risposta alla violenza. I valori della Repubblica, i valori della grande, vecchia Europa, non avranno nemici più forti della loro causa morale. Questo il senso.
La sfilata parigina è stata un evento storico. Un milione e mezzo di persone ha invaso la città (circa quattro milioni in tutta la Francia) e una cinquantina di leader internazionali hanno marciato insieme, per ribadire il concetto: nessun terrore, dinanzi al terrorismo. Con tutta l’intenzione – almeno a parole – di fermare il delirio. Come? Tema immenso e complesso. Mentre discutendo di frontiere, di Schengen, di integrazione e di immigrazione, c’è chi soffia sul fuoco della rabbia, sperando di trarre vantaggio elettorale dalla mitologia spaventosa dello scontro tra fedi e civiltà (vedi Marine Le Pen o Matteo Salvini, non a caso assenti dalla manifestazione); c’è chi costruisce complottismi e false flag, arrivando all’ignobile sport di negare il sangue dei morti e il dolore dei familiari, pur di immaginare il burattinaio transnazionale, l’ombra del signoraggio, lo zampino dei tecnocrati mondiali.
E poi c’è chi, invece – la maggioranza – continua a predicare l’equilibrio: distinguere tra terrorismo e Islam, evitando di criminalizzare in blocco lo straniero e di cadere nella trappola della xenofobia. Una via di salvezza, oltre che di rispetto. Tra questi il Presidente Hollande, uscito a testa alta dall’incubo di queste ore, impegnato a tenere unito il Paese e deciso a insistere sul tasto della razionalità: la violenza resta un cancro generato in seno al fanatismo. Che non ha fede, non ha colore, non ha ragione né religione.
Stessa lunghezza d’onda per Matteo Renzi, anche lui a Parigi per la marcia. Mirato il suo discorso – in un francese assai migliore del suo inglese, ma non ci voleva molto – improntato sul senso dell’identità europea, come scudo e stella polare: “La sfida contro il terrorismo sarà vinta da un’Europa politica, non quindi dall’Europa dell’economia, dell’austerità, della crescita e degli investimenti. Certo, questi temi sono importanti, ma quel che conta davvero è l’Europa dei valori, della cultura e degli ideali. Questo è il motivo per cui siamo qui“. La contrapposizione tra unione politica e unione finanziaria diventa, da adesso, definitiva.
Anche Artribune c’era, ieri, in questa Parigi diversa, lacerata, riversata nelle piazze, solidale ed affranta, spaventata ma coraggiosa, ferma e fiera. Una città quasi metafisica, nell’eco ancora viva degli spari, nel brusio indistinto di migliaia di uomini e di donne, compressi in un corpo solo per calpestare l’offesa, prendendo energia dalla disperazione. C’eravamo, col nostro reporter locale, Cesar Mezzatesta, che di questa giornata ci consegna una collezione di fotografie. Scelte da una prospettiva umana. L’obiettivo – nel percorso da Place de la République a Nation, passando per l’avenue Parmentier e il boulevard Voltaire – lascia indietro i potenti, i grandi leader, i capi di Stato e i primi ministri: tutti, rispetto al problema, con delle responsabilità e delle mancanze da scontare, ma tutti democraticamente eletti. E quindi, oggi – giustamente presenti, giustamente commossi – con il dovere di inventarsi una direzione. Accanto al popolo.
Qui, però, si è scelto di fotografare le persone, il corteo dall’interno, da una prospettiva qualunque, dalle mille facce, i mille cartelli, i mille passi che formavano quel fiume. Abbiamo fotografato francesi, stranieri, orientali e occidentali, scesi in strada con una sola determinazione: omaggiare le vittime, difendere la libertà e riprendersi la città. In barba alla morte ed al terrore.
Eravamo tutti Charlie, ieri. Esserlo ancora domani sarà il punto, oltre il vento passeggero dell’indignazione. E spetterà ai governi – a 14 anni dall’11 settembre, giorno di una dichiarazione di guerra atipica, diluita e colossale – disfarsi di qualunque opacità, gestire la politica degli armamenti, mettere prima dell’interesse economico quello sociale, indebolire i focolai, affamare la bestia e accerchiare i nemici interni, travestiti da fratelli e nascosti come topi (come non è stato fatto per gli attentatori di questi giorni, i fratelli Kouachi, due jihadisti notoriamente vicini ad Al-Qaida, appena rientrati dalla Libia, e per Amedy Coulibaly, membro dell’Isis, arrestato nel 2010 dall’antiterrorismo francese e già libero un anno fa).
E infine, toccherà ai cittadini non alimentare l’odio. Non farsi conquistare dall’ebbrezza di una guerra santa, che fa gola ad altri speculatori, ad altri sciacalli del potere. Perché il problema, banalmente – come sempre – non è la religione tout court, non è lo scontro tra crocifisso e Corano, tra grazia e sottomissione. Una guerra nient’affatto santa, questa qui, che assomiglia a tutte le guerre profane, imbastite per cambiare gli equilibri mondiali del potere. Le vignette blasfeme? La suscettibilità dei musulmani? Dei micro detonatori, impastati con la grande matrice politico-culturale internazionale.
Intanto distrazione, collusione, vaghezza o debolezza sono i vizi evidenziati dinanzi ai terrorismi tutti, che in quanto frutto di degenerazioni ideologiche, religiose o sociali, diventano il braccio sanguinario degli ingranaggi più insani del sistema. E dei conflitti in espansione. L’occasione di interrompere il gioco sta nelle forze sane. Che sono i partiti, i parlamenti, le organizzazioni governative e non governative, la giustizia, la sicurezza. Ovvero, il corpo vivo della democrazia. Nessun’altra risposta esiste, tanto meno i fatidici muri da edificare a tappeto. Perché non c’è frontiera che non possa essere aggirata, non c’è fortilizio che non trovi feritoie, non c’è circuito chiuso che non si possa disinnescare. Con l’illegalità.
Niente, allora, oltre la lunga marcia della democrazia. A viso aperto e con un obiettivo chiaro: rispondere al terrore con la responsabilità. Un fatto politico. Questo vorrà dire, da domani, essere Charlie.
Helga Marsala
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