Servizi aggiuntivi. Il buco nero dei musei e del Ministero dei Beni Culturali

Il ministro Dario Franceschini sembrava rivoluzionario. E per certi versi lo è stato. Ma in tanti altri casi, le rivoluzioni tanto sbandierate si sono tradotte in un nulla di fatto. Ad esempio, in materia di servizi aggiuntivi – che vuol dire caffetterie e bookshop, audioguide e wifi… - è andata così. L’editoriale di Stefano Monti.

LA RIFORMA RONCHEY
Navigando sul sito dell’ufficio statistico del Mibact, ci si imbatte nella voce “Elenco date di Attivazione dei Servizi Aggiuntivi per Istituto Museale” per scoprire con un successivo click che “i dati di questa tavola non sono disponibili”. Indice esteriore di una spinosa questione, quella dei servizi aggiuntivi, che si protrae ormai da anni, con appalti da tempo in proroga, rinvii e ricorsi alla giustizia amministrativa che di fatto hanno ingessato i rapporti fra sovrintendenze e imprese, favorito il determinarsi di posizioni di monopolio ovvero un inadeguato investimento del privato in contesti territoriali di minor convenienza.
Nati nel 1994 dalla felice intuizione dell’allora ministro per i beni e le attività culturali Alberto Ronchey, i servizi aggiuntivi hanno rappresentato un’importante novità in un panorama italiano che non contemplava in alcun modo l’intervento dei privati nella valorizzazione dei beni culturali. Ritoccata in modo sostanziale nel 2004, la normativa in materia è ormai obsoleta e da tempo numerose le voci ne auspicano la revisione.

GLI ANNUNCI DI FRANCESCHINI
È, dunque, in questo quadro che il Ministro Dario Franceschini si accinge a intervenire, annunciando dalle colonne de L’Espresso che saranno rese note entro breve le misure volte a dirimere la questione, senza peraltro tralasciare di sottolineare la scarsa trasparenza di un sistema in cui il soggetto pubblico si troverebbe in una posizione di svantaggio, con guadagni nettamente sbilanciati a beneficio dei privati.
Stando ai dati diffusi dal Mibact, in effetti, nel 2013, gli introiti derivati dai servizi aggiuntivi, ossia dai servizi che ruotano attorno ai musei, ai monumenti e alle aree archeologiche statali – comprensivi di audioguide, bookshop, caffetterie, ristorazione, prenotazione prevendite e visite guidate – si sono attestati sui 45.792.624,32 euro, con una quota destinata alle soprintendenze pari a poco meno del 15% che, tradotto in termini assoluti, significa 6.676.495,24 euro. Una percentuale in media pressoché stabile nel corso degli ultimi quindici anni.
Che fare dunque? Un ritorno alla gestione statale, almeno in via opzionale, “della parte più redditizia dei musei” attraverso l’attivazione di un soggetto pubblico – si parla della Ales, Arte Lavoro e Servizi spa – che sul modello della francese Rmn (Réunion des Musées Nationaux) competa con i privati per aggiudicarsi la gestione degli attrattori culturali; nuove gare d’appalto all’insegna di una maggior trasparenza con la Consip incaricata del compito di definire criteri e contenuti dei bandi e, dunque, nuovi contratti con aggiornamento delle royalties statali. Queste alcune anticipazioni della “ricetta Franceschini” rese note dall’inchiesta de L’Espresso.

MAST Caffetteria, Bologna

MAST Caffetteria, Bologna

QUALE TRASPARENZA?
Una ricetta tutt’altro che convincente. Se in effetti l’intervento sul mercato di un soggetto pubblico sul modello francese rischierebbe di rendere il panorama ancor più complesso, senza dover sottacere che in un immutato contesto di scarsa trasparenza il pericolo di alterare le regole del gioco è imminente, altrettante sono le insidie che si nascondo nella definizione dei criteri di scelta degli operatori chiamati a gestire i servizi aggiuntivi. Basta poco per restringere la concorrenza, come dimostrano i criteri delineati nel bando per la selezione delle figure dirigenziali chiamate a gestire venti rinomati musei italiani appena pubblicato dal Mibact. E a ben vedere, in effetti, lo scambio di favoritismi, posti e vantaggi tra istituzioni statali o parastatali, come testimoniato dalla sedicente “Rivoluzione del Mibact” in cui l’atto rivoluzionario si è sostanziato in una mera rotazione delle cariche, potrebbe rivelarsi essere l’unico versante in cui questa soluzione potrebbe avere una concreta utilità.
In una prospettiva più ampia, inoltre, seri dubbi nutriamo circa l’efficacia di un ritorno alla gestione statale dei servizi aggiuntivi, posto che lo stato in cui versano i nostri beni culturali è da imputare a una visione anacronistica e per l’appunto a un eccessivo intervento dello Stato che per decenni ha gestito in modo inefficiente il patrimonio culturale italiano. Tanto per fornire una visione d’insieme non esauriente né esaustiva, i dati dell’Istat, evidenziano che nel 2011, solo l’11,6% dei musei e istituti similari offre servizi di audioguida, mentre il 5,7% offre servizi di videoguida o applicativi per dispositivi digitali mobili (smartphone, tablet, etc.); appena il 9,4% ha la connessione wi-fi gratuita, il 13,3% ha un catalogo accessibile online e nettamente inferiore è la percentuale degli istituti che mettono a disposizione servizi di biglietteria on line (5,7%). Per non parlare del dato imbarazzante sulla conoscenza e/o disponibilità di informazioni in lingua.
Un quadro non lusinghiero e di certo non destinato a migliorare, vista la polemica sia pur fondata del Ministro Franceschini sulle royalties troppo alte percepite dai privati a discapito dello stato. Una polemica che denota, anzitutto, il persistere di una visione del bene culturale market oriented ormai ampiamente superata nel panorama internazionale a beneficio di un più opportuno approccio consumer oriented, ma anche un miope antagonismo verso il ruolo dei privati visti come minaccia, piuttosto come un’opportunità per valorizzare un sistema di risorse materiali ed immateriali ad oggi è sicuramente sfruttato in condizioni sub-ottimali e, data la recessione economica, a corto di risorse, oltreché di competenze.

Maxxi

Maxxi

GLI INTERVENTI NECESSARI
Si richiedono, dunque, interventi strutturali e una politica culturale di più ampio respiro che prendendo atto dei mutamenti intercorsi nell’ultimo decennio guardino all’istituzione culturale, come ad un luogo di incontro e di socialità, i cui primi e assidui visitatori provengano dalla comunità locale. E se sul fronte interno si auspica un forte lavoro sulla formazione del pubblico, con particolare attenzione alle nuove generazioni e ai residenti stranieri, altrettanto urgente è la previsione di una politica turistica volta ad incentivare sul piano interno e, soprattutto, internazionale la promo-commercializzazione dei nostri attrattori culturali, facilitando l’acquisto di biglietti ancor prima della partenza.
Se dunque a livello macro appare indispensabile coltivare il pubblico, attività in mancanza della quale i buoni risultati conseguiti nel 2013 dai musei e dalle aree archeologiche statali in termini di presenze (+6,2%) grazie a interventi di natura prettamente tariffaria rischiano di tramutarsi in evento episodico, a livello micro e venendo nello specifico alla questione dei servizi aggiuntivi è auspicabile l’instaurarsi di un rapporto maggiormente paritario.
Se stando ai dati riportati è senza dubbio necessaria una più equa ripartizione dei guadagni derivanti dai servizi aggiuntivi, è altrettanto vero che questi dati si riferiscono agli introiti lordi e che se ci deve essere un accordo con i privati, si deve garantire che tale nuovo equilibrio sia fondato sul reciproco guadagno, perché rendendo eccessivamente oneroso l’investimento, non si attirerebbero attività che concorrono alla percezione del valore del sito culturale da parte dei propri visitatori. In altre parole, l’investimento privato è e deve essere orientato al profitto, perché questa è la caratteristica che spinge molte realtà a perseguire criteri di eccellenza.
Forse per una volta, lo sciocco è chi guarda la luna e non il dito, perché non è certo questa la patologia che debilita il nostro Patrimonio, quanto piuttosto la scarsa trasparenza e la complessità del sistema, la variazione delle regole in corso di gara e le concessioni dalla durata troppo breve, i vincoli eccessivi e la soggezione pressoché non contestabile al volere di Sovrintendenze che all’insegna della conservazione sono in non rari casi eccessivamente conservative.
Sono queste le principali cause dell’attuale stato delle cose. Una situazione a cui si può porre rimedio solo attraverso regole che impongano maggiori chiarezza e trasparenza, e la creazione (e non l’abolizione) di un regime concorrenziale in cui il pubblico e il privato siano chiamati ad operare sinergicamente per ottenere reciproci vantaggi.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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