Sette volte distrutta e sette volte ricostruita, la città di Beirut ogni volta rinasce dalle proprie ceneri – come vuole la leggenda dell’Araba Fenice – e cambia pelle nel tentativo di cancellare le tracce della distruzione. Dal 1991 a oggi, sono stati ricostruiti oltre 18mila immobili, venti mall di tipo americano, un campus universitario e uno stadio da 65mila posti. Attualmente Beirut, la città mutante, appare uno dei luoghi a cui guardare per comprendere alcuni movimenti del mondo globalizzato, soprattutto quelli generati nella nuova opposizione fra Occidente e Medio Oriente, che sembra aver sostituito la polarizzazione della Guerra Fredda. Multiculturale, multireligiosa, crocevia di identità e modelli di vita, Beirut è il luogo della trasformazione. Alternativamente considerata un modello o un’eccezione all’interno del mondo arabo, è senza dubbio un laboratorio di sperimentazione della cultura araba contemporanea.
Patrimonio naturalistico e fucina di intellettuali ad altissimo profilo, il Paese dei Cedri sembra condannato a ricoprire un ruolo “cuscinetto” nel mondo arabo, senza considerare le ferite ancora aperte della lunga guerra civile (1975-1991), oltre ai più recenti conflitti. Beirut è dunque una città continuamente minacciata dalla distruzione materiale. Al tempo stesso, è una città in cui sorgono con forza nuova energie, capitali, progetti, sviluppo sociale e culturale. La realtà artistica, politica e sociale di Beirut rappresenta una città complessa, vivace caleidoscopio di culture nella pluralità del mosaico libanese.
La leggenda di Beirut si fonda, dal punto di vista economico, su un passato pulsante di traffici, grazie al porto internazionale e all’agile sistema bancario; dal punto di vista sociale, sulla possibilità di vivere – secondo le parole dell’intellettuale Albert Hurani – “in due o tre mondi allo stesso tempo, senza appartenere veramente ad alcuno di essi”. Poco più di quattro milioni di abitanti (metà degli abitanti della Lombardia) e una ventina di diverse comunità – drusi e maroniti, sciiti e sanniti – convivono in un Paese in cui non sono consentiti matrimoni misti tra i diversi gruppi (le coppie più giovani per sposarsi fuggono a Cipro in nave e tornano a cose fatte).
Partendo da questo molteplice punto di vista, e avvalendosi di un approccio interdisciplinare (collaborazioni tra artisti, architetti, sociologi, scrittori, giornalisti) la comunità intellettuale della città è solidamente compatta e collaborativa. Da sempre in movimento verso temi fondamentali quali democrazia, libertà, società civile, questa comunità non si è mai arresa alle minacce di distruzione e invasione. Al contrario, ha sempre promosso un pensiero laico e positivo di riflessione sulla “ricostruzione della città”, non solo dal punto di vista urbanistico e architettonico, bensì dal punto di vista sociale e umano.
I maggiori autori che agiscono nel paese sono, solo per citarne alcuni, The Atlas Group/Walid Raad e Akram Zataari, nomi noti nella comunità artistica internazionale; Jalal Toufic, scrittore, teorico del cinema e videoartista; Walid Sadek, artista e scrittore; Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, architetti e sociologi; Bernard Khoury, architetto e teorico; Rabih Mrouè, attore e autore teatrale.
La comunità di intellettuali libanesi si riunisce in prevalenza intorno a tre maggiori centri di produzione e promozione della cultura contemporanea: Ashkal Alwan, The Arab Image Foundation e il più recente BAC – Beirut Art Center. Quest’ultima è un’organizzazione non profit che ha lo scopo di promuovere pratiche artistiche critiche, oltre a documentare e costruire un archivio dell’attività creativa libanese contemporanea. Ashkal Alwan (Homeworks) lavora su ampi progetti con mostre, conferenze, performance e pubblicazioni, oltre a operare nello spazio pubblico, creando reti per il dialogo e lo scambio culturale. The Arab Image Foundation,organizzazione fondata nel 1996 per lo studio della cultura visiva araba, è un importante archivio di immagini che raccoglie e promuove il patrimonio fotografico del Medio Oriente e del Nord Africa.
Ideatore dell’iniziativa The Arab Image Foundation è Akram Zaatari. Artista e curatore, ha realizzato oltre trenta video e installazioni, in cui l’impotenza del narratore di fronte al tempo che se ne va portando con sé le intime esperienze di vita si manifesta nel tentativo di ricostruire nostalgicamente la memoria, di idealizzare il vissuto. Zaatari è un importante interprete della società libanese, stigmatizzandone la realtà politica e culturale attraverso temi quali l’identità e la memoria. Nei suoi video Zaatari esplora soggetti riguardanti la condizione del dopoguerra libanese, come in All is Well on the Border (1997), e la circolazione di immagini nel contesto della divisione geografica del Medio Oriente, come in This Day (2003) e This House (2005).
Cofondatore dell’Arab Image Foundation è Walid Raad, noto per aver ideato The Atlas Group, progetto che di fatto cela l’idea di un archivio, creato nel 1999 allo scopo di fare ricerche e documentare la storia contemporanea libanese. Raad si propone di individuare, studiare e preservare materiali audio, visivi, letterari e di altro genere sulle guerre che hanno lacerato il Libano negli ultimi trent’anni. Il gruppo, di fatto, non esiste e Walid, unico componente, ideatore e fondatore, crea un’altra figura fittizia – il Dr. Fadl Fakhouri – a rappresentare l’autorità “storica” per la narrazione dei fatti. Fatti che mescolano ricerca e raccolta di documenti reali con la costruzione di situazioni fittizie. Una sorta di collage storico a volte surreale, ma sicuramente di grande efficacia, come nel caso delle riprese video sulla detenzione degli ostaggi americani in Libano (I Only Wish That I Could Weep, 2001), il collage fotografico sulle 245 macchine-bomba esplose nei centri urbani libanesi (My Neck Is Thinner Than a Hair, 1999) e i resti ritrovati sul fondo del Mediterraneo, di fronte a Ras Beirut.
I temi della ricerca di The Atlas Group/Walid Raad riguardano la rappresentazione di eventi traumatici (come la guerra) legati alla dimensione collettiva: i materiali funzionano come documentazione di violenze fisiche o psicologiche. Ogni intervento artistico è dunque un grido di protesta politica, teso a costituire uno spazio pubblico sulla memoria e l’inconscio collettivi. Tutto il lavoro di ricerca è conservato e organizzato nel sito dell’Archivio Atlas Group. Le presentazioni pubbliche del progetto includono installazioni con diversi media, proiezioni, saggi visivi e letterari, conferenze e performance.
Altra figura di riferimento nella comunità intellettuale di Beirut è Bilal Khbeiz. Poeta, saggista e giornalista, collabora con inserti culturali di quotidiani quali An Nahar e con altre riviste d’arte europee. Il suo lavoro teorico e visivo sulla memoria culturale e urbana del Libano viene presentato spesso in collaborazione con Walid Raad. Bilal ha pubblicato diversi saggi e libri su temi di attualità, come City and Explosions (in Going Public ‘06. Atlante Mediterraneo).
Tra devastazione e precarietà, con la ricostruzione Beirut (definita anche la “Parigi d’Oriente”) si trasforma nella città della vita notturna, del divertimento, della leggerezza. E i nuovi locali sorgono accanto a macerie abitate o sui luoghi della guerra. In particolare, i progetti del giovane architetto libanese Bernard Khoury si confrontano direttamente con i luoghi più difficili della città, quelli della memoria stratificata. Ne è un esempio B018,una sorta di curiosissima “astronave-discoteca” scavata nel ventre della terra, locale notturno sorto alla Quarantaine, nei pressi del vecchio porto. “I miei progetti non riguardano il passato e nemmeno il futuro. Si confrontano con le diverse realtà sociali condensate nella città. Perciò rappresentano sempre il momento specifico esistente nel presente”, afferma Khoury. Critico – come molti altri giovani architetti, artisti e intellettuali libanesi – sul tema della ricostruzione “forzata” del centro storico, Khoury è inoltre preoccupato per le sorti dei villaggi al sud di Beirut, anch’essi soggetti a piani di ricostruzione non propriamente “spontanei”. Il grande progetto di “risanamento” del centro storico, nato sotto il nome di Beirut Central District, è di fatto un’enorme operazione di speculazione edilizia, affidata a un’unica società immobiliare, la Solidère. La stratificazione delle memorie del Paese sono in un certo modo sepolte sotto a quegli edifici, che hanno come fondamenta reperti archeologici, tra cui un villaggio neolitico, un portico romano, un suk medievale. Perciò lo scrittore libanese Albert Nacca ha giustamente parlato di “memoricidio”.
Diversa è la situazione per la progettazione del porto e della nuova marina affidata, per concorso, allo studio americano di Steven Holl, in collaborazione con il gruppo L.E.FT. Il collettivo (fondato a Beirut e New York nel 2001) è composto dai giovani architetti libanesi Makram El Kadi, Ziad Jamaleddine e Naji Moujaes e si occupa di esaminare relazioni e interferenze tra produzioni culturali, politiche e ambiente costruito. Tra i loro progetti, la rivitalizzazione di piazza dei Martiri, luogo simbolico per il popolo libanese, sia storicamente che culturalmente. Spazio per incontri pubblici, rappresenta la memoria, il potere politico e più recentemente il luogo della cultura, del commercio e degli spettacoli. Qui la “green line” divideva Beirut durante la guerra civile. L’intelligente e ironico progetto dei L.E.FT propone un “verde campo da gioco”, in cui le “due squadre” (cristiani e mussulmani) non si sfidano più su campi militari, ma su un campo sportivo. Un cambio di prospettiva che pensa alla costruzione di colline verdi e piccoli laghi nel lungo spazio della piazza, per mettere in contatto la montagna con il Mediterraneo.
Ed è su questa piazza che il Libano ha visto la propria Primavera. Ancora una volta la piazza: dopo Praga, Bucarest, Tiananmen. Dopo trent’anni di occupazione e di guerra civile, il popolo libanese è sceso in piazza, ha marciato e gridato e ottenuto la liberazione dalle truppe straniere. Oltre un milione di persone, un vero e proprio movimento di massa, ha seguito l’appello dell’intellettuale Samir Kassir, scrittore e giornalista, impegnato a indagare l’identità democratica del Libano, ispiratore della “Primavera di Beirut”. Al grido “redescendez dans les rues”, migliaia di giovani si sono schierati pacificamente per la liberazione del Paese dall’occupazione siriana, impegno che Kassir ha pagato con la vita. Alla testa della piazza, artisti, intellettuali, scrittori: la ricostruzione della città parte da loro e a loro ritorna.
Claudia Zanfi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati