Dialoghi di Estetica. Parola a Graham Harman

Graham Harman è esponente di spicco del realismo speculativo, corrente filosofica nata nel 2007 e diventata vero e proprio mainstream del pensiero contemporaneo. Gli autori legati a questo movimento sono numerosi ma ciò che li accomuna è l’idea che, contrariamente a quanto si è sostenuto negli ultimi due secoli, l’uomo può avere accesso alla cosa in sé - cioè all’essenza del reale - e non solo al fenomeno, ossia all’apparenza. Graham Harman, in particolare, è il promotore della cosiddetta object-oriented philosophy, che cerca di ricollocare l’estetica al centro del dibattito filosofico. Non sorprende dunque che la cosa sia stata subito intercettata dal mondo dell’arte...

Qual è a tuo avviso il rapporto tra realismo speculativo ed estetica – intesa sia come filosofia dell’arte sia come teoria della percezione a là Baumgarten?
I quattro filosofi che hanno fondato il realismo speculativo (oltre a me, Ray Brassier, Iain Hamilton Grant e Quentin Meillassoux) sono stati inseriti per due anni di seguito (all’81esimo posto nel 2013 e al 68esimo posto nel 2014) nella classifica di Art Review delle 100 personalità più influenti nel panorama dell’arte contemporanea
Io ho scritto un articolo intitolato piuttosto significativamente Aesthetics as First Philosophy. In un altro saggio, The Third Table, sostengo che nei prossimi secoli le arti debbano funzionare da modello per la filosofia, come hanno fatto le scienze naturali e la geometria deduttiva negli ultimi quattro secoli.
A mio parere la filosofia ha a che fare con la tensione che esiste tra due tipi di oggetti (l’oggetto reale e quello che si presenta ai sensi) e i due tipi di qualità corrispondenti. Ho provato a mostrare che l’estetica è il risultato di questa stessa tensione e ho cercato dunque di ricollocare questa disciplina al centro dell’attività filosofica.

Cosa ti distingue dagli altri tre filosofi del realismo speculativo?
Anche Meillassoux, per il quale la disciplina a cui fare riferimento è la matematica piuttosto che l’estetica, ha scritto un libro davvero brillante su Mallarmé. Penso però che Meillassoux avrà problemi a estendere l’uso del metodo matematico ad altri autori, pittori e musicisti. L’unica forma di realismo speculativo destinata ad avere problemi con l’estetica è il versante nichilista e scientista di Brassier. In un certo senso, l’estetica è l’esatto opposto di un’invettiva contro la futilità dell’esistenza. Qualsiasi filosofia che sostenga tale futilità è condannata a inventarsi qualche stratagemma nell’improbabile caso in cui le tocca di doversi confrontare con le opere di Wordsworth, Cézanne o Schönberg.


Il relativismo è particolarmente arduo da refutare in estetica e in filosofia dell’arte, soprattutto da quando il concetto di “bellezza” è stato messo in dubbio dalle avanguardie. Cosa può dirci di nuovo una filosofia di impianto realistico da questo punto di vista?
Il tradizionale “realismo” filosofico non ha molto da dire sull’arte, a mio parere. Tipicamente, il realismo in filosofia è interessato in prima istanza alla questione di come sia possibile ottenere conoscenze di un mondo reale che esiste al di fuori delle nostre menti. Il realismo “object-oriented”, che io difendo, sostiene invece che, certo, esiste un mondo reale fuori dalla mente, ma che esso non possa mai essere “tradotto” in maniera fedele in un sistema di conoscenze.
Questa idea ovviamente non è nuova, si tratta anzi di un ritorno al fare filosofia così come lo intendeva Socrate. La philosophia ha bisogno dell’ignoranza, nell’accezione etimologica del termine. Ora, l’arte ha senza dubbio un valore di tipo cognitivo, ma sarebbe assurdo definirla una forma di conoscenza (così come chiamiamo forma di conoscenza la fisica, per esempio).

Cosa intendi esattamente per conoscenza, allora?
Per “conoscenza” intendo l’operazione di sostituire l’“ignoranza” che un costrutto complesso (per esempio “elettrone”) costitutivamente incarna con una traduzione letterale e accurati elenchi di proprietà di una cosa: la massa esatta, il carico elettrico di un elettrone, nel nostro esempio. In questo consiste il progresso scientifico.
I critici letterari talvolta usano il termine “parafrasi” per definire questa procedura: è chiaro che nel campo delle arti un’operazione simile non funziona. Sarebbe un disastro. Non possiamo sostituire un oggetto d’arte con una lista accurata delle sue qualità: sarebbe come cercare di sostituire un grande romanzo con la pagina Wikipedia corrispondente. Questo è il motivo per cui il realismo tradizionale non ha nulla da dire sulle arti: come abbiamo detto, si limita a parafrasare gli oggetti nel lessico proprio dei modelli di eccellenza cognitiva che ha come punto di riferimento (la fisica, la matematica ecc.).

Acquerello del 1910 di Vassily Kandinsky

Acquerello del 1910 di Vassily Kandinsky

Mentre il realismo “object-oriented” cosa si propone di fare?
Partendo da un tipo di realtà che non può essere parafrasata, il realismo object-oriented caratterizza la bellezza come una tensione che viene a crearsi tra il reale, inconoscibile, e le qualità che gli orbitano intorno, conoscibili.
Non direi che le avanguardie hanno messo in questione la bellezza, o almeno non ci sono riuscite. È vero che – specie se parliamo di Duchamp e dei suoi successori che si sono avvicendati nella scena dell’arte dagli Anni Sessanta del Novecento in poi – hanno provato a fare dell’arte una questione di “posizionamento dell’oggetto” in uno specifico contesto piuttosto che qualcosa che appartiene all’opera in sé.
Questo, grossomodo, era anche quello che sosteneva Arthur Danto. Ma è una teoria che a mio parere non funziona molto di più della filosofia di Derrida: entrambe si soffermano sul contesto e sulle rotture del contesto, ed entrambe ignorano completamente la profondità degli oggetti. Non meraviglia il fatto che nessuna delle due abbia una teoria del bello, che richiede che la profondità interiore di un oggetto sia messa a distanza dalla sua superficie relazionale.

In un tuo recente saggio hai esaminato le critiche rivolte da Clement Greenberg all’arte di avanguardia e, in particolare, a Marcel Duchamp e alla sua ricerca artistica. Su quali ragioni si basano tali critiche a Greenberg?
Piaccia o no, Greenberg è un grande maestro. Talvolta ho l’impressione che il suo lascito sia stato dimenticato troppo in fretta. Credo che la sua posizione sia errata, ma non per le ragioni che i suoi detrattori citano di solito. Possiamo tranquillamente definire Greenberg un “formalista”, per il semplice fatto che ha provato a sottrarre un’opera d’arte dal suo contesto e a conferirle un’autonomia estetica totale.
La maggior parte di quello che è accaduto dagli Anni Sessanta del Novecento in poi è stato in qualche modo un tentativo di distaccarsi da Greenberg. Ma non vedo come un’opera d’arte possa essere dissolta nel suo contesto. Certamente assimila alcuni aspetti del suo contesto, ma lo fa in maniera molto selettiva.

Clement Greenberg

Clement Greenberg

Dunque sostieni una posizione di tipo formalista?
Sì, appoggio in pieno la sua teoria dell’autonomia dell’opera d’arte, così come la concezione formalista di un conflitto, interno all’opera, tra il suo background, per così dire, e il suo contenuto superficiale. Penso che Greenberg sbagli invece nel condividere tacitamente l’assunto dei suoi detrattori per cui le opere d’arte sono sistemi olistici.
Gli anti-greenberghiani insistono sul fatto che un’opera d’arte sia parte di un contesto olistico di tipo socio-politico. Greenberg non appoggia questa posizione ma finisce per far dipendere tutti gli elementi di un’opera d’arte l’uno dall’altro. Di più: il “background della superficie pittorica” – la consapevolezza del quale è un elemento essenziale della pittura moderna – è un tutto unificato per Greenberg.

Cosa avrebbe dovuto fare, dunque?
Ciò che avrebbe dovuto fare era posizionare il background del mezzo pittorico non nella tela, ma in ognuno degli elementi pittorici dell’opera d’arte. Non è potuto andare in fondo in questa operazione perché ha molto indugiato nella tesi per cui il contenuto pittorico non è molto più di un “aneddoto letterario”. Ragion per cui ogni profondità, nell’opera d’arte, deriva per Greenberg dalla consapevolezza che il contenuto superficiale dell’opera non abbia altra funzione se non quella di fare riferimento al background della superficie pittorica. Concretamente, questo lo porta a ridimensionare l’opera di artisti che io ritengo dei classici, Dalí e Kandinsky, per fare solo due nomi.

Il gruppo fondatore del realismo speculativo

Il gruppo fondatore del realismo speculativo

Cosa si può imparare dagli errori di Greenberg?
Direi che il futuro di ogni teoria dell’arte sta nel prendere Greenberg molto sul serio – più precisamente nel prendere sul serio i suoi errori e nel cercare di superarli. Piuttosto che dimenticare Greenberg, come spesso si fa, dovremmo cercare di entrare nella sua testa (operazione non difficile, data la chiarezza con la quale si esprimeva) e capire cosa la sua teoria si è lasciata sfuggire e perché. Gli eredi di Duchamp da questo punto di vista hanno sbagliato tutto.

Si tratta comunque di critiche che Greenberg muove negli Anni Sessanta. Ossia negli anni in cui si diffonde l’arte concettuale, spesso pensata proprio nei termini di una sofisticheria intellettualoide, di cattiva arte o persino di non-arte. Quanto hanno influito le critiche di Greenberg in questa rilettura negativa dell’arte concettuale?
Mi chiedo chi concepisca l’arte degli Anni Sessanta in questo modo, se non (a) i sodali di Greenberg o (b) i conservatori che disprezzano in toto l’arte moderna. Mi sembra piuttosto che il mainstream artistico sia ancora “vittima” di quello che è avvenuto negli Anni Sessanta del Novecento…

Davide Dal Sasso e Vincenzo Santarcangelo

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Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino e allo IED di Milano. Membro del gruppo di ricerca LabOnt (Università di Torino), si occupa di estetica e di filosofia della percezione. È direttore artistico della rassegna musicale “Dal Segno al Suono”,…

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