Inchiesta Art Brut. Intervista con Bianca Tosatti del MAI di Cremona
Il suo nome è da tempo legato all'Outsider Art. E ricorre in molte delle iniziative più interessanti messe in campo in Italia in questo settore, dal MAI all'Atelier Adriano e Michele passando per l'Osservatorio dell'Accademia di Verona. Insomma, un approfondimento sul tema non può – e non deve – prescindere da Bianca Tosatti.
Il MAI è stato inaugurato a dicembre 2013 ma l’idea di allestire un museo dedicato all’arte irregolare è molto più antica. Ci spiega quando e come è stata sviluppata?
Lavoro a questo argomento da molti anni, almeno venticinque; non appena ho incominciato a occuparmene sistematicamente, ho realizzato che i materiali che andavo studiando erano un completamento prezioso per la storia dell’arte italiana: materiali fragili e sconosciuti, esposti a cessioni e vendite al collezionismo straniero che, se da una parte ammetteva nei confronti dei materiali italiani un interesse estetico forte, dall’altra risultava comunque contaminato da un intento speculativo – sebbene inizialmente abbastanza contenuto – ma soprattutto da una brama di possesso, di patrimonialità collezionistica e museale.
Erano gli anni in cui il sistema dell’arte veniva stravolto da un concetto ancora oggi molto ambiguo e controverso: la “professionalità” applicata al collezionismo. Da questo nuovo atteggiamento nei confronti dell’arte sono derivati molti dei fenomeni che caratterizzano la situazione odierna: musei, gallerie, case d’asta, grandi collezioni, investimenti finanziari costituiscono di fatto una rete globale molto estesa e difficilmente controllabile, in cui i rapporti e gli scambi sono divenuti “link” di estrema complessità e “nodi” difficilmente solvibili. Ecco, ho intuito già da allora che un museo avrebbe costituito un riferimento, un argine, una struttura articolata di confronto e di comunicazione rispetto al sistema dell’arte.
Qual è stata la risposta del pubblico e quale tipo di pubblico ha risposto?
Il progetto del museo è stato presentato decine di volte, a tutte le istituzioni pubbliche con cui ho avuto contatti, adattandosi ogni volta alle situazioni territoriali e ambientali con le quali avevo a che fare: è stato un impegno etico ininterrotto e psicologicamente molto gravoso, perché chiunque capisce come sia difficile superare i dinieghi, l’incomprensione o – molto peggio – l’ambiguità e la malafede degli interlocutori. Chiunque capisce come sia difficile mantenere la “freschezza” e la “pulizia” di un progetto che si ritiene sempre più necessario, addirittura urgente; chiunque capisce come sia imbarazzante vedere tanto denaro speso per realizzare mostre-spettacolo (sempre impostate sulla parola “follia”) o la bellissima Biennale scorsa in cui un giovane curatore (nei suoi modi e con la sua personalità, molto diversa dalla mia, naturalmente) ha assunto il tema dell’arte irregolare come perno di una raccolta di opere interessantissime che ha fatto vibrare, dopo tanti anni, il pubblico abituale di queste rassegne.
Ecco dunque che Il Palazzo Enciclopedico di Gioni ha dimostrato come queste opere sfidano l’abitudine e l’artificio, dialogano con la ricerca contemporanea da pari a pari, abbattono il vecchio e tedioso dilemma fra la presenza o la mancanza di intenzionalità. E, contemporaneamente, ecco che l’arte irregolare è stata divorata dall’art system, è diventata moda, adattata alle golosità estetiche di designer e comunicatori, giovani e meno giovani divi della curatela globale e periferica, corsi di approfondimento universitario frettolosi e spesso improvvisati.
Arrivando al punto: quando lo IOS di Sospiro mi ha offerto di impostare il MAI nella grande Villa Cattaneo, ho comunque accettato senza riserve, malgrado tutte le considerazioni che ho enunciato sopra, principalmente perché era la prima volta che ricevevo una proposta concreta.
Perché il feedback istituzionale dell’Italia rispetto all’arte irregolare è stato più lento che in altri Paesi? Penso in generale al mondo anglosassone, alla Francia, al Belgio, all’Austria…
Questa risposta può sembrare arrogante e un po’ drastica, ma è l’unica onesta: per ignoranza. Naturalmente la storia dettagliata della formazione di una consapevolezza estetica a proposito di queste opere dimostra che anche in Italia abbiamo avuto grandi lezioni di sguardo, ma sono state rare e quasi sempre senza seguito. Molti hanno intrecciato la storia di questo argomento a quella della psichiatria, ma anche questa è una deviazione dalla strada maestra, che resta sempre quella dell’estetica e della critica.
Oltre a queste considerazioni, bisogna anche ammettere che noi italiani siamo sempre stati avviluppati dalle parole, sembra che non riusciamo a vedere e sentire senza parlare o scrivere, sopra – prima – dopo – dietro – attorno… all’opera! Basterebbe fare il confronto fra un nostro manuale di storia dell’arte e un manuale inglese (Argan contro Gombrich, per esempio); se la tradizione italiana è dunque tanto legata alle parole della critica… beh, anche questo è un motivo determinante per il ritardo che lei ha rilevato: l’arte irregolare non ha bisogno di critica, anzi la rifiuta, l’arte irregolare esige di essere considerata per quello che è. L’opera pretende un corpo a corpo con chi la guarda, o la tocca, o la sposta, o l’inserisce in un contesto spaziale.
Il MAI si trova all’interno di un bellissimo edificio che accoglie, oltre alle opere, anche alcuni degli artisti che le hanno prodotte: un luogo dell’arte all’interno di un luogo di cura. Come interagiscono, nella pratica, queste due “anime”?
Sì, questa era la struttura originaria del MAI: fare dell’atelier La Manica Lunga (il luogo dove abitualmente lavorano gli artisti ospiti della struttura ospedaliera) il perno di questa grande “casa” dell’arte irregolare. Naturalmente il progetto prevedeva di rinforzare questo perno organizzando sessioni di conduzione e di frequentazione sempre nuove.
La conduzione di un atelier è una professione ancora imprecisata in Italia: avremmo voluto che il MAI servisse anche a profilare, in collaborazione con le università, questo ruolo, offrendo ai tirocinanti la possibilità di lavorare a stretto contatto con figure ormai leggendarie che hanno fondato e messo a registro diversi metodi di lavoro. La frequentazione poi è un altro argomento strettamente legato alla sociologia della creatività di cui l’aspetto terapeutico costituisce solo un punto di vista parziale: anche il tema della frequentazione cioè avrebbe comportato un serio lavoro di approfondimento e di sperimentazione rivolta non solo agli ospiti dell’ospedale, ma soprattutto alla cittadinanza.
La programmazione del MAI prevede naturalmente mostre, ma anche momenti di dibattito sull’arte irregolare, la cui “sistematizzazione” teorica include il contributo di più voci da diversi campi del sapere. Lei è una storica dell’arte e se ne occupa da anni: potrebbe spiegare che cos’è l’arte irregolare, immaginando di rivolgersi a una persona che non ne abbia mai sentito parlare?
Naturalmente è impossibile rispondere alla sua domanda, proprio per tutto quello che ho detto prima. Dovrei far vedere l’arte irregolare, facilitare la fruizione lenta e profonda dell’opera, accompagnare l’interlocutore alla scoperta dei dettagli, aiutarlo a utilizzare funzioni grandangolari e lenticolari dello sguardo: avvicinamenti fino alla scoperta del peso della mano sul segno, allontanamenti fino all’intuizione di quel grande mistero che è lo spazio.
Far vedere significa anche avvertire la soggettività dell’altro, diffidare dell’illusione dell’aver capito, assumere un atteggiamento di prossimità, di avvicinamento: l’arte irregolare è un agguato alla nostra stessa soggettività, un rischio, un’esperienza totalmente nuova.
Sara Boggio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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