Spesso mi piace domandare di chi siano certe parole che ripetiamo, a volte come una litania. L’adagio che dà il titolo a questo ragionamento, nei fatti, parla di dissesto idrogeologico. Un tema di costante attualità in Italia, che, in questi mesi, ha fatto vittime, creato sfollati e degrado sotto l’aspetto paesaggistico e infrastrutturale. Ne parla già Carlo Levi, un pittore, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, in cui, tra le molte cose, si riflette anche sulle conseguenze del disboscamento dell’area collinare di Gagliano – il luogo, in cui si svolgono i fatti – che è sul punto di affondare, di essere inghiottito da una gola. La chiesa del paese è già mezza crollata, scivolata nel burrone. La ragione? Gli alberi sono stati tutti tagliati. Non ci sono più radici che trattengano la terra e, ad ogni pioggia, qualcosa cede, qualcosa affonda, qualcosa si stacca e si trasforma in fango. Agli abitanti di Gagliano, letteralmente, “casca la terra” sotto i piedi.
Recentemente ho iniziato un testo dedicato a un grande pittore contemporaneo con una domanda stupida tanto quanto il ritornello che apre questo articolo o quanto quello che, da ragazzino, sentivo cantare a Sandra Mondaini nei panni del clown Sbirulino: “Per fare un albero ci vuole un fiore”. E scrivevo: “Ci diranno: ‘Il mondo sta crollando e voi disegnate fiori?’. Risponderemo: ‘Disegniamo fiori proprio perché il mondo sta crollando’” (Note dal deserto, in Alessandro Bulgini, Decoro Urbano in Barriera di Milano, I quaderni del MEF n. 2, Torino 2014).
E penso che ora io debba dare una spiegazione di cosa intendessi. Per farlo chiedo aiuto a Carlo Levi e al suo ragionamento sulle radici – che nel libro ha un aspetto semplice, pur essendo carico di valenze simboliche almeno quanto le tragedie di quest’anno in Liguria e Piemonte.
Senza radici casca la terra, casca il mondo, scivola via col fango. Le radici sono ciò in cui ci riconosciamo. Sono i valori che le generazioni hanno limato e sagomato al punto da divenire sagoma stessa dell’identità di un popolo, un popolo, come quello italiano, ad esempio, che è stato leggenda in ogni storia (dell’arte, della scienza, dell’architettura, della politica, della letteratura, della filosofia). La situazione dell’Italia di oggi, tuttavia, somiglia molto a quella di Gagliano, coi suoi alberi tagliati per vari scopi, tutti poco nobili, è vero, ma tutti allo stesso modo letali. Ne parla già Pasolini nei suoi articoli sulla massificazione della società. Le specificità sono state mutilate, le radici troncate. La televisione ha insegnato agli italiani una lingua più povera del dialetto, una lingua con cui non si riescono più a contenere i concetti, i pensieri. La scuola si è arresa e l’università impoverita. Gli italiani come Machiavelli, Dante, Michelangelo, Verdi, fino a Sandro Pertini ci sembrano appartenere a una civiltà anteriore, come gli Etruschi, i Volsci, una razza estinta, la razza umana. Tutti inghiottiti dalla terra che cede senza radici, che affonda dentro se stessa.
A camminare sul fango restano gli anfibi, sorta di replicanti capaci di adattarsi al nulla e al deserto perché del deserto sono creature. E restano gli ultimi uomini. Tra loro i poeti, l’ultima linea di difesa dell’umanità. Forse colpevoli anch’essi per aver disertato lungamente alla chiamata. Ma ecco che oggi, dopo tanto tempo, danno vita a un gesto apparentemente ingenuo ma rivoluzionario. Iniziano a disegnare fiori, come quelli che Alessandro Bulgini dissemina nella desertica Barriera di Milano, come quelli che Andrea Mastrovito fa crescere sui muri delle periferie americane senza pietà, come quelli di cui parlava Mariangela Gualtieri nel suo meraviglioso e potentissimo Predica ai pesci di qualche anno fa. Un piccolo gesto che però salva il mondo. Perché ogni fiore ha radici. Sottilissimi fili bianchi. Radici che si intrecciano ad altre radici andando a costruire una rete in espansione che può infine contenere la terra, può trattenerla ancora nella forma di globo prima che si squagli irrimediabilmente nell’universo, lasciando di questa razza umana nemmeno più un sasso orbitante che ne rammenti la storia e quel poco di gloria passata.
Un miracolo semplice, dunque, disegnare fiori nel deserto, perché il deserto non sia più. E forse questi sottilissimi filamenti riusciranno a scendere in fondo abbastanza per intrecciare di nuovo le antiche radici recise, ma mai estratte. Allora forse i fiori diventeranno alberi, come diceva quella stupida canzone dell’infanzia e come mi sembra possibile tutte le volte che pronuncio ancora una volta le parole dei padri, perché non abbandonino mai questa terra.
Gian Maria Tosatti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
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