La gestualità del writer. Intervista con Giada Pellicari
Cos’è, esattamente, la pratica del Writing? La curatrice Giada Pellicari, che da anni affronta questi temi con mostre, conferenze e workshop in Italia e all’’estero, ha dato alle stampe “Scrivere di Writing - Note sul mondo dei Graffiti” con la casa editrice patavina CLEUP, una guida all’intricato quanto affascinante mondo dei writer che unisce ricerche sul campo ad uno studio critico rigoroso che integra metodologie e riflessioni multidisciplinari.
Quando e come è nata l’esigenza di scrivere un libro sulla pratica del Writing?
Si può dire che il libro ha preso forma nel tempo, essendo il risultato di una ricerca continuativa. Studio e scrivo di questo argomento da circa cinque anni, ma l’esigenza effettiva è nata dopo la mia laurea, perché ci tenevo a fare un po’ di chiarezza su questo mondo così poco compreso. L’idea era quella di provare a dare nuove chiavi di lettura e analizzare il Writing in maniera interdisciplinare, rapportandolo a diversi contesti.
Sostanzialmente amo le lettere dipinte sui muri e le parole sulla carta. “Scrivere di Writing” è da vedere come il connubio delle due.
Ti dedichi da anni a questo contesto, unendo la ricerca critica ad un vero e proprio lavoro sul campo – basti pensare al tuo ruolo di editor in chief del blog Street Art Attack. In quale modo questo libro si colloca all’interno del tuo percorso?
Ho sempre considerato Street Art Attack come una piattaforma di ricerca e un’estensione immateriale del mio lavoro sul campo. Quando due anni fa sono entrata nello staff grazie ad Abarth (co-fondatore insieme a Jinko), ho fortemente voluto aprire il sito a un gruppo di persone giovani e competenti con le quali c’è un dialogo continuo sull’argomento: altri curatori, fotografi professionisti, laureati in storia dell’arte, dottorandi di ricerca e organizzatori d’eventi culturali. Mi piace pensare che insieme siamo un unico nucleo di studio, anche se non propriamente accademico, dove ognuno di noi è focalizzato su diversi aspetti inerenti alle forme dell’arte urbana. Non mi interessa la notizia veloce, quanto piuttosto lo sviluppo di testi più approfonditi e con una base di analisi critica.
Il libro è la raccolta delle ricerche compiute sul campo, studio visit, interviste, saggi per convegni, conferenze, testi per mostre e una tesi di laurea. Finalmente tutto raggruppato.
La prima sezione del libro è dedicata a una riflessione critica sul Writing e, ampliando il discorso, alla situazione attuale degli studi di settore, per passare dunque al rapporto tra esso e le istituzioni. Qual è il tuo parere riguardo a quest’ ultimo aspetto, soprattutto in Italia? Quali cambiamenti sono avvenuti in questi ultimi anni?
Vi sono alcune esposizioni che possono essere considerate come tappe storiche per l’avvio del Writing a fenomeni di istituzionalizzazione in Italia, tra le più famose cito Arte di Frontiera, Pittura Dura e Street Art Sweet Art. Tuttavia il mio non è un testo di storia dell’arte o della curatela, anche se ho affrontato in parte le dinamiche curatoriali, dato che sono curatrice e la cosa mi tocca nel profondo. In poche parole io penso che il Writing debba stare in strada, suo luogo di origine, dove deve prendere forma in maniera libera e spontanea. E’ solo nascendo così che il writer arriva ad una gestualità e un’istintività di realizzazione che è tipica di chi fa il graffito, sviluppando di conseguenza il proprio stile, che deve essere unico.
Cosa ne pensi dei progetti curatoriali relativi al Writing?
Molto spesso si fanno mostre dove si vede la traslazione del Writing su tela, assurdo per me, o eventi chiamati impropriamente di “arte pubblica” dove vengono invitati writer a dipingere su grandi dimensioni in maniera legale. Non dico che tutto ciò sia sbagliato, dipende da come si fa. Bisogna che sia nei contesti outdoor che in quelli indoor non si arrivi ad una strumentalizzazione del Writing a fini politici, economici, di moda, né tantomeno a forme di decorativismo architettonico. E’ importante, inoltre, che le istituzioni siano consce di come il Writing si formi veramente e che non rinneghino la sua origine, snaturandolo, dando vita a fazioni tra Writing buono e quello cattivo, poiché la legalità e l’illegalità sono le due facce della stessa medaglia. È necessario, piuttosto, spiegare in cosa consista questa cultura nella sua totalità. Solo da una presa di coscienza reale si può iniziare un dibattito costruttivo.
Devo dire che a parte tutto il caos imperversante in Italia, c’è anche un bel gruppo di persone e luoghi di riferimento che stanno trattando l’argomento in maniera seria e articolata, scrivendone anche la sua stessa storia e riflettendo in maniera intelligente sulle questioni che ti ho sintetizzato qui in poche parole.
Nel libro scrivi che la relazione tra la pratica del Writing e l’espressionismo astratto “è prevalentemente fondata sulle idee di azione ed evento“, sottolineandone l’aspetto performativo. Puoi spiegarci meglio cosa intendi?
Faccio un passo indietro. Nel mio libro mi sono focalizzata anche sulla relazione con lo spazio urbano, sulla camminata del writer visto come walker, riprendendo Michel De Certau, e su tutto l’ambito performativo e gestuale esistente nel momento in cui il writer realizza il proprio pezzo. Il Writing, a mio avviso, va visto come una forma culturale visiva dotata di un linguaggio autonomo che assume, tramite l’esperienza della sua realizzazione sul muro, la conformazione di immagine. Questa va intesa, però, come ultima parte visiva di una processualità di esecuzione e significazione, risultante in un segno calligrafico di matrice performativa, gestuale e visuale allo stesso tempo, che ho definito come il gesto-segno.
Il rapporto con l’Espressionismo astratto va visto in questa luce. Molto spesso, in maniera erronea, alcune persone identificano il Writing con delle immagini astratte. A prima vista può sembrare così, ma quello che si vede, in verità, è una forma caratterizzata dalla giustapposizione e dall’intrecciarsi di lettere.
Qual è il rapporto tra il reale e i graffiti?
Il reale contenuto dei graffiti è concreto, perché costituito dal nome del writer. A volte, questo è vero, di difficile decodificazione, ma quella è anche la parte più divertente. Harold Rosenberg ha detto nel suo famoso saggio sugli American Action Painters del 1952 che “What was to go on the canvas was not a picture but an event”. Quest’ultima si pone come una frase importante per il mio studio e in essa ho riscontrato il collegamento con questo movimento, proprio grazie alla descrizione inerente all’importanza dell’atto del pittore in sé e alla considerazione della tela vista come un luogo dove il dipinto “fisico” deriva da una performance. Nel nostro caso, ovviamente, si sta parlando di muri e di spazio urbano.
La seconda parte del libro riguarda il rapporto tra writer, opera e spazio urbano, in cui sostieni una posizione critica nei confronti degli eventi e delle iniziative che portano i writers a lavorare su tela e ad esporre i loro progetti all’interno di gallerie e istituzioni. Puoi parlarcene?
Mi ricollego alla domanda poco sopra. Il Writing va visto come una forma culturale visiva, che prende vita e si contestualizza a contatto con il “cultural landscape”. È, a tutti gli effetti, un segno site-specific, che ha senso in un determinato contesto e in un determinato tempo, e che caratterizza un luogo, il quale, a sua volta, viene a conformarsi a posteriori in base alla sua stessa presenza. Per questi motivi, poi ce ne sarebbero altri, non credo alla semplice traslazione del Writing su tela, dove il pezzo diviene quasi un feticcio o un memento mori. Certo può avere un aspetto estetico, che può piacere, ma dal punto di vista intellettuale perde di quelle caratteristiche tipiche del Writing. Trovo molto interessante, invece, quando ci sono dei percorsi che partono dal Writing e si sviluppano in maniera autonoma, tangente e affine sì, ma che hanno un senso già in sé, come lo possono essere le sculture, ad esempio.
Le mostre nelle gallerie e nelle istituzioni devono esserci, ma più che altro come momento di ricerca, riflessione e storicizzazione del movimento. Amo quelle documentative, inerenti alle foto dei pezzi e ai bozzetti, che credo siano le più interessanti perché non snaturano il Writing.
Come dovrebbero comportarsi le istituzioni in questo contesto?
Le istituzioni dovrebbero commissionare i progetti a persone competenti in materia, che sappiano muoversiagevolmente sia nell’ambiente del Writing che in quello più istituzionale dell’arte contemporanea canonica.Quelli che non comprendono neanche la differenza tra Writing e Street Art non dovrebbero curare mostre di questo tipo.
In una delle sezioni finali del libro ti concentri sugli aspetti in comune tra la comunità degli hackers e quella dei writers, soprattutto per quanto riguarda le loro pratiche: ambedue i gruppi agiscono come agenti disturbatori in uno spazio condiviso in cui la presenza della pubblicità e delle corporazioni è ben visibile e, in una certa misura, assillante. Puoi spiegare perché le due comunità possono essere accostabili?
È abbastanza impegnativo trattare le correlazioni tra la cultura hacker e quella dei graffiti, perché possono essere considerate come due correnti atipiche nel mondo della produzione culturale. Entrambe sono solitamente ritenute come due pratiche che appartengono alla vita “fuorilegge” e vengono viste ingiustamente solo in un modo “oscuro”, non considerando, invece, che hanno la capacità di contestare e provocare lo spazio in cui viviamo. L’hacking, infatti, comporta un uso specifico dello spazio online, il quale a causa di interessi privati, è denotato dalla mercificazione e dall’esistenza della proprietà privata, come lo è lo stesso spazio urbano. Sia l’hacking che il Writing, però, hanno la capacità di riappropriarsi degli spazi e di renderli in questo modo nuovamente pubblici e liberi, spesso cambiandone la stessa funzione e realizzando un effettivo détournement. Ho sviluppato tutto ciò attraverso le correlazioni anche con i Tactical Media, caratterizzati da una componente artistica forte, e lo studio di alcuni manifesti, come quello hacker di McKenzie e quello di Rammellzee nel caso del Writing.
La mia analisi, comunque, si basa a partire dalle ricerche di Evan Roth, artista che ammiro profondamente e che è stato lungimirante nell’analisi del Writing prima di molti altri.
Filippo Lorenzin
http://www.cleup.it/scrivere_writing.html
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