La Sputacchiera #3. Il contributo di Expo2015 all’iconografia infernale
Come se non bastasse già tutto il resto, i recenti fotomontaggi di Expo 2015 hanno fatto il giro del web, scatenando ironie e insulti di ogni genere. E se invece fossero il capolavoro di un misterioso genio neodadaista? Ricorrendo all’analisi iconografica, la Sputacchiera di oggi proverà a sostenere questa tesi.
Questa rubrica-divertissement che è la Sputacchiera, mi preme ricordarlo, nasce con una funzione polemica ben precisa: dire tutto il male possibile dell’artworld contemporaneo, e tramutare in humour accigliato gli attacchi di bestemmie che, puntualmente, mi colgono di fronte all’impiego arbitrario e strumentale che istituzioni, autorità e media sono soliti fare di parole come “genio” e “capolavoro”.
Se nelle precedenti edizioni ciò è avvenuto con regolarità, prendendo a bersaglio Ai Weiwei, il Maxxi e Marina Abramovic, la Sputacchiera di oggi si concede di tradire in ben due modi la sua stessa vocazione. Difatti, non si parlerà di artworld né propriamente d’arte contemporanea. Inoltre, non si cercherà di smascherare alcun finto genio, tutt’altro! Oggi è mia intenzione rendere giustizia a quello si è soliti chiamare un genio incompreso.
Il tema di oggi, come annunciato dal titolo, è Expo 2015. Il genio incompreso, invece, è il misterioso autore dell’ormai celebre quanto agghiacciante fotomontaggio che vedete qui.
L’immagine è datata ormai di qualche mese: fu pubblicata sul sito ufficiale dell’iniziativa a maggio dello scorso anno, in occasione dell’inaugurazione di Expo Gate – coppia di imponenti padiglioni allestiti in largo Cairoli a Milano, di fronte al Castello Sforzesco: una piattaforma di transizione, un “ponte” ideale tra la città e la fiera a un anno di distanza dall’apertura di quest’ultima.
Presumibilmente, nelle intenzioni di chi ne ha autorizzata la divulgazione, questo fotomontaggio avrebbe dovuto destare una certa fregola e un’irrefrenabile voglia di unirsi alla festa. Peccato sia riuscito nella missione esattamente opposta, giacché una valanga di insulti si è immediatamente abbattuta su Expo sotto forma di tweet e condivisioni via Facebook. Lo stesso copione si è ripetuto pochi giorni fa, quando, evidentemente non sazi della scorpacciata di chitemmuorti di qualche mese prima, gli organizzatori di Expo hanno ben ritenuto di pubblicare una serie di rendering – raffiguranti alcuni padiglioni, ancora in costruzione a meno di tre mesi dall’inaugurazione – non dissimili dal fotomontaggio di cui sopra. Anche in questo caso, le nutrite schiere dei web-schernitori non si sono fatte attendere, e giù di nuovo con ironie e vituperi d’ogni sorta, insinuazioni circa il presunto e disdicevole impiego di Paint, la consacrazione dello “Stile Expo” a meme – notevolissimi, ad esempio, i fotomontaggi sulla pagina Facebook “Render brutti” e, soprattutto, il generatore automatico di immagini per Expo2015, facilmente rintracciabile su Google.
Ma torniamo alla prima, archetipica immagine, e all’arduo proposito di riscattarne le finalità estetiche, così come le reali intenzioni del suo autore. È stato già detto quanto quel fotomontaggio sia agghiacciante. Ora, siamo tutti sufficientemente moderni e vaccinati per perderci in futili argomentazioni sul perché ciò, di fatto, non costituisca un ostacolo a un’eventuale investitura artistica: dalle speculazioni post-hegeliane di Karl Rosenkranz alla più recente tassonomia di Umberto Eco, alla bruttezza sono ormai ampiamente riconosciute un’estetica e una storia di tutto rilievo nel dominio delle arti. Il brutto, l’osceno, il terrificante, l’inguardabile, possono svolgere una precisa funzione artistica tanto quanto il bello e il sublime. Resta da capire quale mai possa essere la supposta funzione artistica di un collage così lapalissianamente grossolano, così maldestramente scontornato e scomposto, praticamente un’accozzaglia di ritagli senza un senso apparente.
Per scoprirlo, il lettore dovrà sforzarsi di mutare la propria disposizione d’animo e vagliare un’ipotesi sottovalutata: guardare a questa immagine come a un encomiabile e assai riuscito tentativo di sabotaggio. Provi poi il lettore, per un istante, a figurarsi che sotto le spoglie di un ignoto e mediocre grafico di provincia si celi, in verità, un novello Raoul Hausmann, il rievocatore di uno spirito dada autentico e perduto, da tempo cooptato da quella stessa borghesia contro cui, una volta, esso si batteva.
A queste supposizioni, se ne aggiunge una terza non meno intrigante, deducibile da una rapida analisi iconografica dell’opera. L’ipotesi è che l’autore sia, tra le altre cose, un erudito, un fine conoscitore dell’iconografia infernale. Ci basterà scorrere e mettere in fila alcune rappresentazioni dell’Inferno, tratte da quella grande stagione di Giudizi Universali che precede il Rinascimento, e che va dal XIII al XV secolo.
La prima di tali rappresentazioni compone il famoso mosaico che Coppo di Marcovaldo realizzò nel Battistero di San Giovanni, a Firenze, tra il 1260 e il 1270, e che naturalmente ispirò Dante Alighieri. A seguire, il maestoso affresco realizzato da Giotto nel 1306 presso la Cappella degli Scrovegni a Padova. Terzo e quarto esempio sono, infine, l’Inferno di Giovanni da Modena a San Petronio a Bologna (1410 ca.) e la tempera su tavola del Maestro dell’Avicenna conservata nella pinacoteca della stessa città (1435).
Le affinità iconografiche con il nostro collage sono sbalorditive. In tutte e cinque le immagini, un cielo incandescente fa da sfondo a una scena che si sviluppa in orizzontale, brulicante di figure umane o antropomorfe, e marcata dall’incombere di una presenza spaventosa, centrale e in primo piano, sempre dedita ad attività inerenti alla digestione. Se allora Satana, Lucifero o Bafometto erano grottescamente raffigurati nell’atto di divorare i corpi dei dannati, o al limite di cacarli, nell’inferno di Expo il loro posto è preso da un individuo non meno inquietante: un cuoco dai tratti asiatici, lo sguardo tra l’ammiccante e il minaccioso, che prova a tentare l’osservatore con una brodaglia scura non bene identificata [1]. Gli si accalcano, tutt’intorno, gruppi di figure che ben si confanno a un immaginario di satanassi e di dannati. I primi si dividono tra varie sezioni del quadro: a sinistra sotto forma di indefinibili demoni variopinti [2]; a destra, nei panni ancor più raccapriccianti di fashion victims [3]. Avvicinandoci al centro troviamo, da un lato, un gruppo di suonatori [4], e Dio solo sa con quale aria infernale, più rovente delle stesse fiamme, questi ultimi stiano tormentando le anime disgraziate: forse un eterno Festival di Sanremo? Certo è che anche qui, tutto lascia pensare a un altro illustre precedente: l’Inferno musicale di Hieronymus Bosch, nel pannello destro del Trittico del Giardino delle Delizie (1480-1490 ca.), dove liuti, arpe e percussioni si rivelano crudeli macchine di tortura.
Dal lato opposto, sottovaluteremmo ancora una volta il nostro artista se ci limitassimo a una lettura epidermica di quello che appare come un innocuo filare di ballerine [5]. La plasticità seriale delle figure e l’alternarsi del bianco e del nero richiamano, in questa ormai inconfutabile malabolgia, un’iconografia assai vicina a quella in esame, ossia la danza macabra.
I dannati si dividono, infine, in due gruppi. Sulla sinistra se ne potrà scorgere un mucchietto, dove a una saturazione apparentemente sconsiderata sono affidati i volti avviluppati dalle fiamme [7]. Ma è al centro, attorno al nostro Asmodeo in toque blanche, che troviamo un folto gruppo di anime penitenti, prendere parte a un acheronteo banchetto [6]. Si compie qui un ulteriore clin d’oeil, stavolta assai meno datato: presso un’identica tavolata a ferro di cavallo, Pier Paolo Pasolini costruisce la più famosa e rivoltante scena di coprofagia della storia del cinema. Il film è Salò, o le 120 giornate di Sodoma (1975), la cui struttura è scandita da capitoli che si rifanno ai gironi danteschi: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue.
La nostra analisi iconografica potrebbe continuare oltre e ancora a lungo. Ci limiteremo a rintracciare, nelle due palme, le ruote issate sui pali dove, nelle Fiandre del XVI secolo, i cadaveri venivano lasciati a disseccare, e che Pieter Bruegel il Vecchio disperde qua e là nei suoi capolavori, su tutti il Trionfo della Morte (1562 ca.). Un uso dell’affollamento e dello sviluppo orizzontale-centrato analogo a quello di Expo Gate ricorre, poi, in scene demoniache e in trionfi della morte ben più recenti, come nel cupo Sabba delle Streghe del 1821-23 di Francisco Goya, o nel disumano polittico della guerra di Otto Dix (1929-32). Quella infernale è, invero, un’iconografia inestinguibile e plasmabile a immagine e somiglianza dei tempi: per Dix l’inferno fu la Grande Guerra vissuta da combattente; per Goya fu il clima oscurantista dell’ultima grande stagione inquisitoria spagnola, compiutasi sotto Ferdinando VII. Che inferno potrà mai essere per il nostro, ormai affezionatissimo, neodadaista italiano del 2015?
Il suo “inferno artificiale” – espressione con cui André Breton ribattezzò proprio il dada, in uno scritto del 1921 – rispecchia, in fin dei conti, il clima di desolante approssimazione culturale, di mortificazione del lavoro e di grandi abbuffate (tanto per restare in tema di cibo) politico-istituzionali di cui Expo sembra essere frutto inequivocabile. Abbiamo assistito, prima sconcertati poi consolati dall’ironia, un susseguirsi di gare d’appalto controverse, di ritardi d’ogni sorta nella consegna dei padiglioni, di vergognose campagne di reclutamento all’insegna del lavoro non retribuito e di curatori-star che, al contrario, sono stati letteralmente ricoperti d’oro.
Sarà chiaro, ormai, il perché a siffatta sfilza di orrori non me la senta di aggiungere quella che, in teoria, potrebbe essere di diritto l’opera di un genio. E tanto più perché il suo stesso titolo, Expo Gate, allude all’idea di un ingresso, di una porta. Nel titolo di questa immagine è incluso il suo stesso parergon, la sua cornice: la bocca del leone, o del drago, o del Leviatano, iconografia ancora più antica per rappresentare la porta dell’Inferno. Tra quelle fauci spalancate, fatte proprie anche da Bruegel e El Greco, si apre un varco su una città dolente – non tanto Milano, quanto l’Italia – che, per ingordigia e superficialità, ce la sta mettendo tutta per mandare al diavolo un’occasione unica di riscatto internazionale.
Vittorio Parisi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati