L’arte (e gli artisti) ai tempi della crisi. Parte II
Come è cambiato il rapporto dell’artista con il mercato e con i referenti del mondo dell’arte (galleria, museo, collezionisti) dopo l'inizio della crisi? Le difficoltà economiche sono state paralizzanti oppure hanno funzionato da stimolo per la ricerca di percorsi alternativi? Abbiamo chiesto a un gruppo di artisti italiani di rispondere a queste scottanti domande. Ecco cosa ci hanno raccontato gli intervistati di questa seconda puntata del nostro talk show.
EVA FRAPICCINI
Cosa è “crisi” e cosa no per un’artista nato in Italia alla fine degli Anni Settanta, inizio Ottanta? Per coloro che hanno iniziato a lavorare nel XXI secolo in Italia non c’è mai stata un’età dell’oro. Quindi se consideriamo crisi “la goccia che ha fatto traboccare il vaso” nell’arte contemporanea nel 2008, penso che, più che il mercato, a patire siano stati i musei e i neoprofessionisti della critica, che avrebbero trovato nella ricerca la loro naturale occasione di lavoro. Parlo di quello che ho vissuto per ora, e non di quello che vedo intorno a me, di cui non conosco le origini vere: il collezionista e le istituzioni continuano a comprare tramite galleria perché questo garantisce loro una certa continuità dell’artista nei decenni (fino a un certo punto), una certa qualità dei lavori (fisica o concettuale). La crisi ha creato un “effetto domino” che ha ammaccato tutti: i musei, le gallerie, ma di cui la sola vittima è la ricerca artistica intangibile, pura, che va al di là dei pezzi singoli, di opere fisicamente classificabili e vendibili (fotografie, dipinti, sculture).
Limitando le possibilità dei musei di sostenere lavori di ampio respiro temporale, e non esistendo in Italia qualcosa di simile al British Council o al Mondriaan olandese, gli artisti si sono trovati a cercare delle soluzioni veloci e immediate per fare cassa, lasciando indietro progetti più ambiziosi. Questo ha bloccato, inutile negarlo, soprattutto chi non poteva contare su finanze personali o su gallerie solide. O l’artista ha la fortuna di non dover lavorare per vivere, come la nobiltà dei secoli passati, o porta avanti i suoi progetti più lentamente perché fa altro per sopravvivere.
ANDREA MASTROVITO
Quando la crisi iniziò, qualcuno mi disse che sarebbe stata una sorta di “igiene del mondo”, ovvero avrebbe eliminato la fuffa e lasciato in piedi solo i migliori e i più meritevoli. Oggi possiamo dire che in realtà la crisi non ha favorito i migliori, ma i più ricchi, e l’Italia, in questo momento, non fa certo parte della categoria dei “ricchi”. Forse neanche dei migliori, ma questo è ancora tutto da dimostrare. Una cosa, comunque, non manca agli artisti italiani: l’intraprendenza. In assenza di uno Stato forte, di istituzioni museali forti, di gallerie forti, negli ultimi anni molti artisti hanno deciso di prendere l’iniziativa e portare avanti il loro discorso al di fuori del classico schema artista + curatore + galleria = mostra = soldi, ormai crollato. La loro risposta alla crisi è stata non tanto strategica quanto strutturale all’opera: una riduzione del linguaggio ai minimi termini per poter partire a ricostruire, poi, dalle macerie.
Penso a Marinella Senatore che apre una scuola. A Giuseppe Stampone e ai suoi alfabeti. Ad Alessandro Bulgini e ai suoi disegni con i gessetti per strada, ad Alice Cattaneo e alle sue sculture che scavano l’assenza, o ancora a Tosatti che riporta alla vita i luoghi abbandonati nelle città, a Vascellari che stabilisce Vittorio Veneto come campo base e ci porta tutto il mondo. O ad Adrian Paci che scava letteralmente le radici della nostra cultura. In fondo anche il mio ritorno al disegno, e alla strada, è una risposta naturale alla crisi.
GOLDSCHMIED & CHIARI
Siamo abituate alle crisi e pensiamo che la difficoltà sia un elemento vitale e necessario. Abbiamo sempre lavorato con il minimo indispensabile. Il rifiuto e il rimosso sovente diventano opera nel nostro lavoro. A nostro parere la mancanza di fondi per le istituzioni diventa risorsa e creatività solo nella misura in cui le stesse hanno la possibilità di essere flessibili e sono guidate da visioni utopiche e forti. Nella maggior parte dei casi resta un grande limite, soprattutto in strutture costose e spettacolari. Infondere linfa vitale, suggerendo strategie di sopravvivenza e rinnovamento, è una responsabilità di noi artisti. Tra questi percorsi alternativi possiamo citare la mostra There is no place like home, durata tre giorni e tre notti, organizzata da un gruppo di artisti in un cantiere alla periferia di Roma e sostenuta da pochi sponsor. In quell’occasione il cantiere è diventato un luogo simbolico di incompiutezza e costruzione di senso, dove l’arte è vitale, libera. Pura esperienza.
PAOLO CAVINATO
Credo che oggi non sia più possibile rimanere chiusi dentro i confini nazionali, anche se non riuscire a confrontarsi nel proprio Paese genera frustrazione. Il sistema italiano è semplicemente inadeguato, data la scarsitàdi connessioni tra collezionisti, fondazioni, musei e artisti. Attualmente una risorsa fondamentale consiste nel “fare squadra” con legallerie.Una strategia ben diversa dal sistema nordeuropeo e di alcuni Paesi emergenti, dovegli artisti sono supportati dallo Stato e i linguaggi artisticivengono considerati alla stregua di vere ricerche scientifiche.Così, l’opera d’arte non è pensata solo come qualcosa di personale, ma diventa un vero soggetto, offerto alla comunità per generare dibattito. Non si tratta soltanto di creare un prodotto, come vorrebbe il mercato, ma di formare un soggetto portatore di senso. Tutti noi siamo circondati da montagne di oggetti. Qualcuno continua aparlare di crisi economica. Io parlerei ancora prima di crisiculturale e spirituale.
LUCA POZZI
La ricerca di percorsi alternativi è una prerogativa di questo stile di vita. Se non credessi nella possibilità di fare le cose diversamente, lavorerei alle poste. Il mio rapporto con il mercato nasce parallelamente alla crisi, quindi è difficile scorgere le differenze del prima e del dopo; per me sono stati anni generalmente euforici. Ho iniziato la mia ricerca in un clima di fiducia inaspettata, un periodo in cui ho conosciuto collezionisti, che poi sono diventati buoni amici, ho collaborato con aziende, che mi hanno dato opportunità produttive inaspettate, ho esposto in realtà di mercato internazionali, notando un pragmatismo e una determinazione maggiori rispetto al contesto italiano. Quello che sembra essere paradossale è il rapporto con i musei, ma non so se sia da imputare o meno alla crisi. La volontà di realizzare progetti esiste, ma la capacità di produrli non va di pari passo. Io proprio non riesco a fare mostre a costo zero e per quanto le gallerie con cui lavoro siano di sostegno, non si può versare acqua nel latte del gatto.
H.H. LIM
In passato il mercato esaltava un artista sempre dopo una lunga esperienza di ricerca. Invece oggi ha rovesciato questa visione, creando un nuovo punto di vista che condiziona l’artista, spingendolo a falsificare la propria creazione per inseguire il successo economico. Per un artista è importante avere un valore ma, quando questo valore diventa un condizionamento, rischia di portare una falsa testimonianza del nostro tempo verso il futuro. È chiaro che per vivere e per produrre c’è bisogno di denaro, però il mercato non può essere l’unico strapotere che domina il mondo dell’arte.
La parola crisi, che in questi ultimi tempi ci siamo abituati a sentire quotidianamente, è per un artista il pane quotidiano. L’artista per la società equivale a una persona disoccupata, non ha mai avuto il diritto istituzionale di fare pratiche burocratiche e perfino la banca non riconosce il suo ruolo. È impossibile avere un prestito per chi fa un mestiere come quello dell’artista visivo. Sospetto quindi che la crisi sia una novità per tutti gli altri, perché noi artisti ci conviviamo da sempre. La crisi, comunque, è un’opportunità per pulire il nostro corpo, avvelenato da migliaia di virus che stanno uccidendo anche la nostra morale. Non sappiamo da dove iniziare ma sappiamo che così non possiamo andare avanti. Cominciare con la testa smontata è sempre meglio di essere montato di testa.
FLAVIO FAVELLI
In questi anni ho conosciuto molte persone che credono al lato positivo della crisi. È una tesi moralista che spera che i buoni virgulti rimarranno, mentre la zizzania finalmente perirà. Una specie di grande freddo che gelerà soprattutto il superfluo e premierà solo un’arte di qualità che si riprenderà il mondo, infestato finora dall’arte commerciale che nell’opulenza ha costruito la sua fortuna. Se però Jeff Koons va a gonfie vele, qualcosa nel ragionamento non fila. In realtà c’è sempre bisogno di un’economia florida. La nostra libertà nasce dal mercato, oscilla fra l’uccisione del vitello grasso e il benessere d’oggi. La mia ricerca (dell’effimera felicità?) non vuole vedere la crisi. Tanti anni fa, a Sarajevo, una donna mi disse che durante il continuo bombardamento della città, ogni mattina, prima di uscire si truccava come di solito faceva, come se fosse una giornata normale.
Questo scritto non è un testo, ma un’opera d’arte.
GEA CASOLARO
Non posso dire di aver sentito un grande cambiamento in questo periodo. Penso di avere sempre seguito percorsi alternativi, visto che una parte dei miei guadagni deriva da lavori commissionati, sia da enti pubblici che da collezionisti privati, in modo diretto oppure attraverso l’intermediazione di gallerie o musei.
Credo quindi di avere una relazione piuttosto particolare con tutti i diversi referenti che, prima ancora che per acquistare una singola opera, si rivolgono a me per un’analisi, una riflessione su una particolare realtà. Questa analisi solo in un secondo tempo, dopo una permanenza sul territorio, diventa un’opera, ogni volta diversa e personalizzata, che nasce dalla relazione con la specificità del committente. È chiaro che relazioni così privilegiate non nascono tutti i giorni, ma quando accadono generano una ricchezza inestimabile.
PAOLA ANGELINI
La mia ricerca pittorica si è sempre interfacciata con la crisi, non subendola ma inglobandola, perché faccio parte di una generazione che non ha mai conosciuto alternative. Il mio lavoro e la crisi economica non sono due realtà che camminano parallele, ma sono l’una dentro l’altra: il mio atteggiamento verso il lavoro è frutto del contesto. Non voglio credere agli alti e bassi di un sistema che ti accetta o ti tiene fuori.
All’incirca cinque anni fa sono tornata nel paese in cui sono nata, San Benedetto del Tronto, e per necessità ho iniziato a dipingere in un garage vicino casa. Per bisogno e poi per scelta ho ritrovato la concentrazione e una possibilità nuova. Fino a scegliere di condividere lo studio con altri amici pittori e creare da un’iniziale difficoltà un luogo di lavoro e di condivisione che sono stati determinanti. Nella crisi è emersa la reale necessità di continuare ad agire al di fuori di regole prestabilite.
ALESSANDRO BULGINI
Questa volta è stata una cosa diversa. Questa volta la crisi ha avuto risvolti desolanti rispetto a crisi d’altri tempi. Cos’è successo? I maestri si erano ritirati in buon ordine appena vista l’opportunità di metter olio nelle stive, quegli stessi maestri che si erano sbattuti in mezzo alle piazze con le bandiere in mano. A loro si erano aggiunti i “saggi”, che consigliarono alle nuove generazioni di espatriare per andare a imparare il mestiere delle buone maniere e dell’efficienza. A questi giovanotti venne insegnato che l’essere presenti sulle riviste patinate e sulle soglie del mercato fosse l’unica cosa che legittimava la loro esistenza come artisti; così l’arte e le sue responsabilità divennero ben poca cosa.
Cos’è cambiato dopo la crisi? Molta gente è tornata a giocare a palline con papà. E altri, che invece hanno voluto continuare la partita, si sono spaventati ancor di più e, terrorizzati di aver sprecato parte della propria esistenza, hanno deciso di continuare comunque, con risultati leggiadri, approssimativi e qualunquistici. È interessante chiedersi cosa sia cambiato nel rapporto tra artista e referenti del sistema, ma forse lo è ancor di più chiedersi cosa sia cambiato nel rapporto tra gli artisti e il mondo circostante. E come abbiano fatto a rintanarsi non appena sentito che veniva meno quel poco che era rimasto del loro ruolo sociale. Io, personalmente, la crisi? E quando mai ho visto altro? Il mio racconto non dipende dalle banche, dai collezionisti o dai galleristi; o meglio, il mio racconto include anche loro, nella speranza che facciano quel che devono per questo mondo disperato. Io, con quello che posso e che so fare, ci provo.
MARINELLA SENATORE
Questa crisi ha generato prima di tutto una sorta di selezione. Le difficoltà hanno in un certo senso costretto molti artisti e compratori, ma soprattutto le istituzioni pubbliche, a “decidere” come investire i pochi fondi a disposizione. All’inizio abbiamo sicuramente attraversato una fase di crescita della qualità, che ha suscitato molto interesse verso le varie proposte artistiche. Oggi continuo a pensare che ci sia questo alto livello di ricerca, ma mi rendo conto di come il mercato sembri dividersi in due filoni: l’uno, minoritario ma di valore, che segue questa stessa ricerca e che sostiene anche gli artisti che fanno un lavoro più complesso – di solito meno vendibile –, l’altro che corre alla ricerca del “nome nuovo”, quel nome che molte volte emerge, ma resiste sul mercato troppo poco tempo.
a cura di Valentina Tanni e Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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