Ma quale iconoclastia? L’Isis, le opere d’arte e il denaro
L'ISIS colpisce ancora. Questa volta al Museo Archeologico di Mosul. Vi abbiamo fatto vedere il video in cui alcuni miliziani distruggono sculture e opere con mazze e martelli pneumatici. Ma tutto questo c'entra con l'iconoclastia? Assolutamente no...
Era il 12 marzo 2001 quando i talebani, che allora – come ora, sebbene in maniera meno “ufficiale” – governavano l’Afghanistan, distrussero i due enormi Buddha di Bamiyan. Sculture imponenti, fra i quaranta e cinquanta metri d’altezza, risalenti rispettivamente al III e V secolo. Fatti saltare in aria con l’esplosivo. Due le parole chiave, le accuse che ricorrevano da una parte e dall’altra: idolatri, iconoclasti.
La storia si è ripetuta a più riprese negli ultimi quindici anni, quasi sempre nei luoghi dove imperversano bande più o meno organizzate di islamisti radicali, che si chiamino Al Qaeda, ISIS, ISIL, Boko Haram (che significa “libro proibito”, ed è tutto detto). Un corollario costante ad atrocità ben più disumane, fra bambine usate come bombe semoventi e ostaggi arsi vivi.
Le ultime immagini – e non significa che siano gli ultimi eventi: c’è un chiaro scollamento fra quando i fatti avvengono e quando vengono diffusi a mezzo video – diffuse dall’ISIL o ISIS che dir si voglia provengono da Mosul e, come vi abbiamo raccontato giovedì 26 febbraio, raccontano della distruzioni dei manufatti conservati nel locale Museo Archeologico. Con una “coda” per ricordare che pochi mesi prima avevano provveduto a danneggiare pesantemente anche parte delle mura di Ninive.
Le voci di sdegno e condanna non sono naturalmente mancate in Italia e nel mondo: il nostro Strillone ha riportato in particolare le parole dell’archeologo Paolo Matthiae su Repubblica, secondo il quale “eccezionali testimonianze scultoree di una delle massime espressioni artistiche del mondo preclassico sono oggi definitivamente perdute”. Poteva mancare Vittorio Sgarbi? La sua proposta è qui sintetizzata: “La distruzione delle sculture del museo di Mosul è un crimine contro l’umanità, che impone un Tribunale Internazionale, come quello di Norimberga, per perseguire i criminali che lo hanno compiuto”.
Iperbolico come sempre, il Vittorio nazionale. Ma il riferimento “di sponda” al nazismo è tutt’altro che fuori luogo. Per alcune semplici ragioni – e sia detto senza voler fare concorrenza a Limes.
In primo luogo l’utilizzo a fini di marketing di quella stessa arte che si condanna: l’entartete Kunst, l’arte “degenerata”, fu soggetto di una mostra itinerante in tutta la Germania, inaugurata nel 1937 a Monaco dallo stesso Goebbels. Una mostra che ebbe un enorme successo di pubblico. Una mossa propagandistica ai limiti della perfezione. Allo stesso modo, la distruzione dei Buddha riportò – anzi: in buona parte portò – l’attenzione su quello che stava succedendo in Afghanistan, come un mirabile trailer prima del colpo di scena dell’attacco al cuore dell’America nel settembre dello stesso anno, il 2001. Dunque, “banale” propaganda.
E questo ci porta al secondo punto: l’iconoclastia c’entra poco o niente. Probabilmente ci crederanno gli utili idioti armati di mazze in azione a Mosul, ma non c’è nulla di dottrinario in questi atti. Tant’è che lo stesso Mullah Omar, per tornare ai Buddha di Bamiyan, non ha mai “giustificato” quegli atti con argomenti teologici.
Perché dunque realizzare un video del genere, peraltro assai più scadente dal punto di vista cinematografico rispetto a diversi omologhi precedenti? Per proseguire su quella china di provocazione che deve essere continuamente alimentata e variegata. Le decapitazioni non scioccano più? Allora facciamo sparare agli ostaggi da un dodicenne. Assuefatti? Li bruciamo vivi. E via dicendo. E poiché una buona fetta degli “occidentali” ci tiene di più al proprio gattino che al clochard che muore di freddo per strada, va da sé che una capatina ogni tanto nei territori del simbolico va fatta. E allora giù con le opere-nei-musei.
Infine, un quarto e ultimo punto. L’enorme valore simbolico che dalle nostre parti attribuiamo all’arte ha un suo pendant non trascurabile dal punto di vista economico. Insomma, quella roba vale parecchio, e c’è un fiorente mercato sotterraneo che ne è interessato. Ora, senza voler fare alcuna dietrologia, vi invitiamo a riguardare con attenzione il video postato dall’ISIS. Qualcosa non torna in diversi casi, con sculture imponenti buttate a terra con un minimo sforzo e che si sfracellano nel momento in cui toccano il suolo, mentre per scalfire altre sono necessarie mazze enormi. Nel primo caso si tratta di copie in gesso? Così sostengono alla commissione nazionale per il patrimonio (lo riporta Sponda Sud). E non stupirebbe affatto che alcuni manufatti originali stiano già viaggiando in direzione di altri lidi. Perché le guerre si fanno sempre per ragioni economiche: il petrolio, certamente, ma anche far arrotondare qualche “corpo intermedio” con il patrimonio dell’umanità conservato in un museo, male non fa.
Torniamo così al nazismo: quelle che bruciavano in piazza erano opere d’arte, certo, ma quelle “migliori” stavano nei caveau e venivano monetizzate. E visto che parliamo di Iraq: ricordate dove furono ritrovate molte delle opere sparite durante la seconda Guerra del Golfo? Certe portaerei avevano la linea di galleggiamento più bassa di cinque centimetri…
Marco Enrico Giacomelli
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