Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Il mio cuore messo a nudo
Il 2015 è un anno importante per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Perché si festeggia il 20esimo compleanno, e proprio nell’anno di Expo. Abbiamo colto l’occasione per una intervista a tutto campo con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo: sulla fondazione, sulla collezione, sull’arte e sulla storia.
Iniziamo con una vexata quaestio: i finanziamenti pubblici. Quanto hanno contato? Parlo in termini economici, ma anche del sentirsi supportati dalla città e dalla regione.
Il finanziamento pubblico incide per circa il 18% su un bilancio di 1,7-1,8 milioni. La Regione Piemonte ha sempre creduto nel nostro progetto, e speriamo che contribuisca anche quest’anno. Quanto al Comune di Torino, il terreno sul quale sorge la fondazione è di sua proprietà e noi lo abbiamo in comodato per 99 anni, in seguito lo spazio andrà alla città. E poi ci sono le fondazioni ex bancarie (Fondazione CRT e Compagnia San Paolo), che hanno un ruolo importante. Hai però ragione a sottolineare l’altro aspetto: soprattutto all’inizio – tra la fine degli Anni Novanta e i primi Anni Zero – è stato importante avere vicino una Regione che ha creduto nel nostro progetto. Che, bisogna sottolinearlo, non è il museo della mia collezione.
Ecco, questo è un punto importante, che forse non è così chiaro all’esterno.
Con tutto il rispetto, il nostro progetto è molto diverso da quello, ad esempio, di molti collezionisti americani. Fin dall’inizio, la Fondazione è nata come uno spazio in cui invitare gli artisti a produrre o dove allestire mostre di opere esistenti, come nel caso recente di Isa Genzken [di cui sono esposte, fino al 12 aprile, opere pittoriche realizzate alla fine degli Anni Ottanta, N.d.R.].
Seconda vexata quaestio: gli artisti torinesi lamentano una scarsa attenzione. Cosa rispondi?
Abbiamo un progetto che si chiama Greater Torino, nato nel 2010, che è proprio dedicato a loro. Ogni anno i nostri curatori, ai quali si affianca Maria Teresa Roberto, svolgono una ricerca facendo moltissimi studio visit e organizzando una doppia personale.
E comunque sin dall’inizio, a Guarene, abbiamo seguito gli artisti italiani: parlo del 1997-98, quando ancora non c’era la sede di Torino. Ci sono i cataloghi che lo testimoniano. Nel 2000 abbiamo fatto una personale di Giuseppe Gabellone, e Okwui Enwezor, che stava lavorando alla Documenta, è venuto a vederla; e Gabellone – oltre a Boeri, che aveva però un ruolo diverso – è stato l’unico artista italiano invitato a Kassel. Nel 2001 è stata la volta di Luisa Lambri, poi ci sono stati Diego Perrone, Flavio Favelli, Christian Frosi, Deborah Ligorio, Stefano Arienti… Insomma, non si può dire che non abbiamo promosso gli artisti italiani e piemontesi! E non li prendiamo quando sono i Cattelan o i Vezzoli, ma quando sono a inizio carriera.
Poi ci sono state altre occasioni. Ad esempio, quando nel 2010 Confindustria ha compiuto cent’anni – io sono nella Commissione Cultura –, sono stati festeggiati con una mostra di fotografia alla Triennale di Milano e con una mostra di artisti italiani in Fondazione: 21 artisti per il XXI secolo.
C’è anche la residenza per curatori stranieri, che è una buona mossa “promozionale”…
La residenza per curatori è nata proprio per questo: parlando con Francesco Bonami, ci si chiedeva cosa fare per supportare gli artisti italiani. Mandarne 2-3 l’anno all’estero con una borsa di studio sarebbe stato limitante, e allora abbiamo pensato di ribaltare la questione: ogni anno invitiamo tre giovani provenienti dalle migliori scuole curatoriali al mondo, li facciamo venire a Torino, stanno in Italia per quattro mesi, visitano qualcosa come duecento studi d’artista… Alla fine fanno una mostra, ma la cosa più importante è che questo significa che ogni anno ci sono tre curatori che entrano in contatto con la realtà italiana e che poi continuano a invitare gli artisti italiani nelle mostre che curano in giro per il mondo.
Personalmente, poi, io continuo ad acquisire opere di italiani.
Ecco, chiariamo quest’altro punto. Le opere che la Fondazione produce sono automaticamente acquisite dalla tua collezione?
Aspetta, qui bisogna essere chiari: la Fondazione spesso produce le opere, e in questo modo sostiene gli artisti. Se poi decido di acquisire una data opera, la pago. È una differenza sostanziale e ci tengo a sottolinearla.
Sul fronte delle produzioni, lavorate anche al di fuori delle mostre in Fondazione.
È vero. Ad esempio, per i 150 anni dell’Unità d’Italia abbiamo organizzato la mostra Un’Espressione Geografica: venti artisti stranieri per venti regioni per venti produzioni. E parte del lavoro di Nathaniel Mellors, un film girato in una villa palladiana – lui si era occupato del Veneto –, è stato proiettato alla Biennale di Venezia del 2011, quella curata da Bice Curiger. Ora invece stiamo lavorando con Carolyn Christov-Bakargiev per la Biennale di Istanbul.
Ma anche qui bisogna sottolineare un aspetto: nel momento in cui viene stabilito il progetto con l’artista, tutto l’aspetto economico lo trattiamo con la galleria. E io non compro mai direttamente dall’artista, a meno che non sia ancora rappresentato da nessuna galleria, come nel caso di Riccardo Paratore. Quando c’è una galleria, sia per gli acquisti che per le produzioni ci rivolgiamo alla galleria stessa. Perché ci vuole rispetto per quello che è un anello fondamentale del sistema dell’arte.
Va bene. Mettiamo da parte polemiche e recriminazioni e facciamo un po’ di storia. Iniziamo da Guarene d’Alba.
È stata fondamentale, perché nel 1997 non avevamo una sede e Guarene ci ha permesso di dare inizio all’attività esplosiva della Fondazione. Lì abbiamo fatto mostre di Giuseppe Gabellone, Luisa Lambri… E nel 1996 abbiamo dato vita a due premi, il Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e il Premio Regione Piemonte. Invitavamo 7-8 fra i giovani curatori più importanti al mondo e chiedevamo loro di indicarci il nome di un artista. Quest’artista veniva a Guarene con un’opera e un progetto. C’era una giuria internazionale. Da lì sono passati artisti come Urs Fischer, Mark Manders… Abbiamo organizzato cinque edizioni. Sempre a Guarene nei primi anni abbiamo progettato la residenza per curatori.
E ora Guarene che ruolo ha?
Abbiamo predisposto otto studi per ospitare artisti e curatori. E poi, soprattutto quest’anno, faremo mostre legate alla collezione, nell’ambito del progetto Expo-Exto.
Poi è arrivata la sede di Torino. Perché hai scelto Claudio Silvestrin come architetto?
C’è stato un bando, perché questa parte di città rientrava nel progetto europeo Obiettivo 2 di riconversione di architetture industriali. Al bando hanno partecipato più di trenta studi da tutta Europa e nella giuria c’erano Francesco Bonami, io, Hans Ulrich Obrist, Marco Folin… Abbiamo valutato i progetti a busta chiusa, nel senso che non sapevamo chi fossero gli architetti. Abbiamo scelto il suo progetto perché era il più lineare, minimale, essenziale. Sai, avendo l’esperienza di Guarene, che è un palazzo del Settecento…
Per la mia Fondazione non ho mai pensato a uno spazio che fosse un omaggio, un monumento all’architettura, ma a uno spazio dove l’artista potesse esprimersi il più liberamente possibile. Abbiamo quindi scelto il progetto che ritenevamo consentisse la maggior libertà espressiva all’artista. E lo vedi: è un parallelepipedo di 3.500 mq il cui spazio espositivo inizialmente doveva essere ripartito in più sale; poi, insieme a Silvestrin, abbiamo fatto alcune modifiche al progetto, lasciando uniti quei 1.000 mq, che possono essere porzionati con le pareti mobili. Ma sarà uno spazio unico ad esempio nella grande mostra del 2015.
Sarà una personale? Di chi?
Questa è proprio un’anticipazione: sarà una personale di Adrián Villar Rojas, a ottobre. Porteremo a Torino i suoi artigiani, che vivranno qui per un mese.
Hai mai pensato di aprire altre sedi della Fondazione?
Tante volte! Mi sarebbe piaciuto, ma è già così difficile gestirne una…
La tua collezione però è sempre in viaggio…
Al momento c’è una parte delle opere a Malaga, un’altra parte a Bruxelles, fra qualche mese in Sudamerica con una mostra che andrà in Ecuador e in Colombia, con la Whitechapel di Londra abbiamo fatto quattro mostre nell’arco di un anno…
E quindi non c’è bisogno di altre sedi…
Anche se non ti nego che mi sarebbe piaciuto!
Se dovessi scegliere un Paese a bruciapelo?
L’America Latina, in generale. Dal Messico fino al Brasile e all’Argentina, ci sono moltissimi artisti interessanti. E sono Paesi in cui c’è ancora tanto da fare.
… e lo shock culturale non è paragonabile a quello a cui si andrebbe incontro aprendo, ad esempio, in India.
Esatto. In un Paese come la Colombia, ad esempio, puoi portare qualcosa di fresco, essere utile a livello didattico con i bambini, sull’educazione… Per fare un lavoro non soltanto espositivo, ma anche e soprattutto formativo.
A proposito: avete uno staff che si occupa di mediazione culturale e di progetti educativi. Che importanza riveste questo settore per te?
È un lavoro importantissimo, che abbiamo introdotto sin dall’inizio. Magari non è così visibile, ma lo ritengo fondamentale. Noi abbiamo ogni anno 15-20mila bambini che visitano la Fondazione e partecipano ai laboratori, dai bambini di tre anni agli studenti delle scuole medie superiori.
Sai, molto dipende anche dall’esperienza personale: i miei figli andavano al Liceo Classico e – avendo un’ora a settimana di Storia dell’Arte – non riuscivo mai, dico mai, a farli venire in Fondazione. E allora ci siamo specializzati proprio su questo, al punto che diamo i crediti formativi ai ragazzi che partecipano ai nostri laboratori. Laboratori che sono sempre legati specificamente alle mostre in corso.
Poi ci sono i mediatori…
Anche in questo caso, non abbiamo inventato nulla di nuovo: la figura del mediatore esiste anche in Francia. In Italia, nell’albo delle professioni museali, la figura del mediatore ancora non esiste. Per noi è una figura molto importante, un professionista pagato per la funzione che svolge e per la formazione continua a cui partecipa e che quindi eccede la sfera del volontariato. Ci teniamo molto al rispetto della loro professionalità e al rispetto del visitatore.
Ora però non c’è più il direttore artistico, dopo che Francesco Bonami lo è stato per vent’anni. Come sono i rapporti con lui?
Francesco è innanzitutto un amico. L’ho conosciuto nel 1995 a Modena: la Fondazione era appena stata costituita e lì c’era una parte della mia collezione, sull’arte inglese. Francesco mi raccontò che stava lavorando a Campo 95, una mostra all’Arsenale di Venezia dove ora ha sede il bookshop/caffetteria – Francesco ha sempre sognato Venezia, fino a che ha diretto la Biennale nel 2003.
Da quella collaborazione abbiamo capito che avremmo potuto fare un importante percorso insieme. Nel 1996 facciamo la mostra Campo 6 alla GAM di Torino e nello stesso anno diventa il direttore artistico della Fondazione. E lo rimane fino a pochi mesi fa.
E adesso?
È il direttore onorario, con un ruolo meno operativo. Continua un rapporto di stima reciproca, perché lui è stato importante anche per la collezione, visto che viaggia molto più di me. Le scelte su cosa acquistare le ho sempre fatte io, ma il confronto con lui è sempre stato prezioso. E anche questa è una scelta che rifarei.
Nel frattempo la Fondazione è cresciuta, ha curatori come Irene Calderoni e Lorenzo Balbi che portano avanti i loro progetti, si collabora con altre istituzioni…
Quindi non senti più la necessità di un direttore artistico?
No, Francesco non verrà sostituito.
Parliamo un po’ della scena contemporanea torinese?
Noi siamo fortunati: abbiamo il Castello di Rivoli, che ha appena festeggiato trent’anni e che è stato il primo museo d’arte contemporanea italiano. Ho imparato molto dal Castello. Vivere in questa città mi ha dato l’opportunità di conoscere meglio questo mondo.
E il resto del Paese?
Se pensi che il primo museo nazionale d’arte contemporanea, il Maxxi, ha aperto pochi anni fa… Dagli Anni Novanta, molto hanno fatto realtà come la nostra, cioè le fondazioni private. Non ci si può limitare a dire: “Abbiamo fatto delle mostre”. In Italia non eravamo solo in ritardo: non avevamo alcuna visibilità. Quando mi sono avvicinata a questo mondo…
… che anno era?
Era il 1992, e sono entrata da collezionista. Ho iniziato a girare ed ero sorpresa da cosa vedevo nel mondo e da cosa non vedevo in Italia. In quegli anni in Italia semplicemente non c’erano i musei. Anche la GAM a Torino ha riaperto solo nel 1994.
E a Milano?
Non c’era molto nemmeno lì. E, quando andavi all’estero, ti rendevi conto dell’enorme divario. C’era molto da imparare, e infatti dico sempre che la Fondazione è un misto fra una Kunsthalle tedesca e un Frac francese. Una Kunsthalle perché è uno spazio che non ha una collezione, ma anzi, è un laboratorio vivo dove gli artisti vengono invitati a produrre e a sperimentare. Un Frac perché comunque io negli anni ho costruito una mia collezione personale che ho dato in comodato alla Fondazione, una collezione che è a disposizione, qui e ovunque, ma non ha una sede: esattamente come i Frac.
Perché collezioni arte contemporanea?
Perché è l’unica arte che ti permette di conoscere gli artisti. È una differenza pazzesca. Parlare con chi l’opera l’ha prodotta è qualcosa di unico, di irripetibile, e per me è fondamentale. Mi sono laureata in Economia e Commercio, mia madre collezionava Sèvres, maioliche e porcellane antiche. Non sapevo nemmeno cosa fosse l’arte contemporanea. L’ho scoperta un po’ per caso, grazie a un’amica collezionista con la quale ho passato una settimana a Londra, andando a visitare gli studi di tanti artisti: Anish Kapoor, Julian Opie…
Raccontaci un po’ di quella settimana.
Era il maggio del 1992. Mi ricordo come se fosse adesso… Faceva un freddo! Arriviamo in questo studio infinito, e Anish non era l’Anish di oggi: era un artista con delle potenzialità, ma era anche lui più giovane… Ho visto quelle piccole sculture ricoperte di pigmenti rossi, gialli, blu, e in fondo alcuni Void, e lui raccontava… In quel momento ho sentito che mi si stava aprendo un mondo nuovo.
Chi è la collezionista che era con te?
È una signora che vive in Guatemala: Rosangela Cochrane. Ma tu conosci la figlia, Gail, la direttrice artistica di Spinola-Banna!
E così nasce la Patrizia Sandretto Re Rebaudengo collezionista…
Io sono convinta che le collezioni siano generazionali: tu collezioni gli artisti della tua generazione, poi diventa difficile…
La mia più grande paura è non riuscire più a leggere le opere. Amo molto il video, un medium che farà sempre parte dell’arte. Ora però il focus è sulla pittura. Ogni periodo ha una sua storia, dei media espressivi privilegiati… La forza di un bravo collezionista consiste nel riuscire a continuare a interpretare l’arte contemporanea, senza farsi condizionare troppo dalla propria storia.
A proposito di video: sei stata fra le primissime collezioniste italiane a occuparsene…
È una collezione importante, in effetti…
Fra la tua, quella che cura Elena Volpato alla GAM e una terza al Castello di Rivoli…
Torino possiede una straordinaria collezione video, sono d’accordo!
Casa tua a Torino è praticamente un museo d’arte contemporanea. Perché non la apri al pubblico, magari un giorno all’anno?
Non ci ho mai pensato… Ma in effetti, perché no? È una casa dove l’arte vive bene.
A proposito di fondazioni private: poche settimane fa hai lanciato una iniziativa che punta a… cosa? Coordinarsi? Fare lobby?
Già nel 2008 ero stata promotrice di Face, un network di cinque fondazioni private europee con spazi aperti al pubblico. Ci troviamo due volte l’anno, facciamo circuitare le opere, sosteniamo gli artisti…
Queste reti sono importanti, così ho pensato che fosse giunto il momento di fare la stessa cosa a livello italiano, visto che – come dicevamo – il ruolo delle Fondazioni è stato fondamentale. Siamo in quindici, da tutta Italia. Ci scambiamo opinioni, mettiamo a sistema le rispettive competenze, faremo magari muovere le opere in collezione; ma soprattutto vogliamo diventare un interlocutore del Ministero. E infatti Dario Franceschini il 4 dicembre è venuto a Torino ed è stato a questo tavolo in Fondazione per un’ora: forse è la prima volta che riusciamo a dialogare così con un ministro, e lui stesso ha proposto di firmare un protocollo d’intesa fra il nostro comitato e il Ministero. È un buon passo in avanti.
C’è qualcosa che hai fatto in questi vent’anni e che non rifaresti?
No! Ovviamente ho commesso qualche errore, ma non ho rimpianti.
Cosa ti ha insegnato l’arte?
Ad essere aperta, ad ascoltare, a imparare dagli altri. Ho dovuto studiare, e molto, per abituare il mio occhio.
Prima abbiamo accennato alla mostra al CAC di Malaga, che si è chiusa a inizio gennaio ed era composta da otto opere di Maurizio Cattelan provenienti dalla tua collezione. Qual è il rapporto con Maurizio?
Maurizio lo conosco da quando ho iniziato a collezionare, anche se le sue prime opere le ho viste a Londra nel 1994 da Laure Genillard. Anche Bidibibodibiboo, Lullaby e Christmas 95 le ho viste nella stessa galleria, due anni dopo. Nel 1996 Maurizio era alla GAM, e anche quella mostra ha segnato una data importante. Ti ricordi che dovevano intervistarlo? Lui mandò tutti i giornalisti al bar, facendo credere che il barista fosse lui!
Con lui abbiamo fatto nel 2001 il progetto con l’insegna Hollywood: abbiamo organizzato l’aereo da Venezia per andare alla discarica di Bellolampo, a Palermo. Siamo partiti alle 6 di mattina, e c’era anche Harald Szeemann, pur essendo una delle tre giornate di preview della sua Biennale.
Qual è stato l’ultimo artista di cui hai acquistato un’opera?
Katja Novitskova. Amo molto la scultura, e fra i giovani più interessanti in quest’ambito ci sono Magali Reus e la Novitskova. Poi un video di Ian Cheng, con il quale mi piacerebbe lavorare. Sulla pittura, ovviamente David Ostrowski [alla Fondazione è stata allestita una sua personale fino al 1° febbraio, N.d.R.]. E un’installazione di Riccardo Paratore, che ha vinto il premio della giuria della prima edizione del Re Rebaudengo Serpentine Grants.
Quale l’opera a cui sei più legata?
Il mio scoiattolino! [Bidibibodibiboo di Maurizio Cattelan, N.d.R.] È un po’ la mascotte della collezione.
E questo per l’opera. Invece per quanto riguarda l’artista a cui sei più legata?
Doug Aitken. Anche lui l’ho conosciuto nel 1996. Quando nel 1999 è stato invitato alla Biennale di Venezia, ci ha chiesto di sostenere la sua opera. Abbiamo prodotto Electric Earth, lavoro con cui ha vinto il Leone d’oro e che poi è andato alla Biennale del Whitney. Nel 2003, poi, abbiamo prodotto interamente la mostra New Ocean, che abbiamo allestito in Fondazione e che è stata anche a Bregenz, alla Serpentine e a Tokyo.
Veniamo infine al “pretesto” per questa intervista: i vent’anni della Fondazione. Cosa ci aspetta per il 2015?
Sarà un anno molto importante, un’occasione per celebrare il ventennale, ma anche per fare il punto della situazione. E per mostrare la collezione.
Quindi, oltre alle mostre in Fondazione e all’esposizione di parte della collezione a Guarene, cosa ci sarà? La grande novità è lo spazio ai piedi di Rivoli, giusto?
Quello è un capannone di 3mila mq di proprietà dell’azienda di mio marito. Nell’ambito del progetto di ExTo, lì sarà allestita parte della collezione, quella sulla scultura. Abbiamo ripulito lo spazio, ora è molto bello. Abbiamo messo una cinquantina di grandi sculture, da Doug Aitken a Jon Kessler, da Tobias Rehberger ad Anish Kapoor, da Damien Hirst a Liu Wei, da Andra Ursuta a Gregor Schneider… È un po’ la mia storia, le mie emozioni.
Sarà uno spazio temporaneo?
Sì, fino a novembre. A marzo ci sarà una grande serata inaugurale e poi lo apriremo al pubblico.
Alla Ca’ d’Oro di Venezia è esposta un’altra tua passione…
Come ti dicevo, sono cresciuta con una mamma collezionista di porcellane, e quindi probabilmente è un po’ nel mio Dna il collezionare. Quando ero ragazzina, a 14-15 anni, collezionavo i portapillole: ne ho centinaia! Li compravo ovunque, soprattutto ai mercatini… Avevo il mio quadernetto, li catalogavo, segnavo dove li avevo comprati, il prezzo d’acquisto, il materiale…
Poi, negli Anni Ottanta, sempre grazie alla mia amica Rosangela, ho scoperto i gioielli: vanno dagli Anni Venti in avanti, sono non preziosi, soprattutto americani. Io non amo i gioielli, i gioielli veri. Tu mi dirai: “Ma hai sempre gioielli addosso!”. Ma non sono gioielli veri! È il mio modo di essere artista.
Perché proprio i non gioielli?
Perché puoi leggere la storia degli Stati Uniti attraverso la storia del costume jewelry.
Quanti pezzi hai?
Un migliaio, a partire dagli Anni Venti. Sono lo specchio della mia curiosità, del voler andare oltre le apparenze… Un diamante è per sempre, uno strass è per tutte!
E poi ci sono le fotografie d’epoca, da metà Ottocento: ne ho circa tremila, costano pochissimo… Ma questa è un’altra storia.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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