Rome&You. Il logo della mia città mi fa vergognare. Parla Cesare Pietroiusti
Pubblichiamo un intervento di Cesare Pietroiusti. Che semplicemente si vergogna. Si vergogna di una municipalità che, non contenta di aver dato vita a un logo imbarazzante, ora cambia anche nome. Passando da Roma a Rome.
In quella che chiamiamo “giornata”, ordinario e ubbidiente succedersi di eventi qualunque, càpita spesso di essere irritati, dispiaciuti, feriti: il barista che è indifferente all’ordine d’entrata degli avventori, il tassinaro che sceglie la strada un po’ più lunga, l’automobilista che suona il clacson senza motivo. Il comportamento razionale – ci diciamo in quei momenti – è ignorare il proprio stesso dispetto, poiché ogni reazione sarebbe di gran lunga più dispendiosa, in termini di conseguenze, del minuto passato in attesa del caffè, dell’euro in più sul tassametro, del temporaneo fastidio dell’orecchio. Meglio, come si dice, far finta di niente, oppure riderci sopra.
Io però molte volte non riesco a ridere. Quando qualcuno che sta parlando in italiano usa una parola inglese per dire una cosa che potrebbe dire altrettanto bene nella propria lingua, oppure quando, alla stazione Termini, sento negli altoparlanti una voce femminile che scandisce il percorso di un treno imitando in modo grottesco la storpiatura anglofona dei nomi delle città e delle stazioni, non riesco proprio a ridere. Mi sento arrabbiato e, ancora di più, imbarazzato. Non solo perché ogni volta mi viene in mente l’effetto politicamente e antropologicamente devastante dell’omogeneizzazione del sapere, del pensiero unico, del mercato globale. Il fatto è che la lingua che ci parliamo è un bene comune, anzi è il più comune di tutti i beni, la più fondamentale delle condivisioni. Ogni parlante usa, e contribuisce a, tale bene condiviso. Ogni mutilazione, ogni svuotamento, ogni storpiatura di questo bene riguarda, e quindi colpisce, ciascun parlante, ciascun “titolare” di quella lingua. E vorrei dire che la lingua-madre è cosa così profondamente comune che ciascuno, in qualche misterioso modo, arriva a sentirsi individualmente responsabile del suo uso e di ogni abuso, anche se l’insulto proviene, in apparenza, da un altro fratello (di lingua). Ecco perché mi vergogno alla stazione Termini oppure quando qualcuno mi invita a una mostra (magari a Milano), che ha come “concept” il “food” (anzi, come “cònzett” il “fùd”).
Vengo, come si dice (solo in italiano), “al dunque”.
Qualche impietoso amico mi ha mostrato, da non so quale sito Internet, le immagini del nuovo simbolo della città di Roma presentato alcuni giorni fa al MACRO, con gran sfoggio di sorrisi, dal signor Sindaco e dai relativi assessori. Sulle prime ho pensato a una messa in scena di qualche geniale collega artista. Col passare delle ore ho capito che era tutto vero. È ufficiale, l’ha stabilito il Comune (che non c’entra niente con il comune di poche righe sopra) sul suo simbolo istituzionale “relazionale” (cioè usato per le “comunicazioni con l’esterno”). Roma ha cambiato nome. Ora si chiama “Rome” (suppongo sia anche necessario arrotare un po’ la “erre”; giusto, signor Sindaco?)
Non è la sconcertante banalità del “RO-ME & YOU” o l’infantilismo ebete delle palle colorate. Cambiare nome a una città, attribuendogli quello usato in un’altra lingua (una delle prime cose che i colonialisti facevano, una volta stabilito il proprio potere su un territorio), è un fatto di portata culturale, simbolica, politica, semplicemente enorme. Dall’espressione candida e gioiosa adottata per l’evento della presentazione (che, per colmo di sfregio, si è svolta in un museo di arte contemporanea), sembra che la nostra “Municipality” non se ne renda minimamente conto.
Non so che fare. Mi vergogno.
Cesare Pietroiusti
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