Sulle tracce dell’arte irregolare
In francese si chiama Art Brut, in inglese Outsider Art, da noi Arte Irregolare: la traduzione è liquida come le forme che tenta di definire. Quelle che sfuggono ai canoni e alle convenzioni della cultura, e che tuttavia musei e gallerie di mezzo mondo hanno imparato a riconoscere e apprezzare. E l’Italia, come valorizza il patrimonio visionario degli outsider?
Fu Jean Dubuffet (1901-1985) a chiamare Art Brut, nel 1945, tutto ciò che arte non è, almeno secondo la tassonomia storica e culturale che ne definisce lo statuto ufficiale, e ad aprire una finestra sulla pratica degli artisti “loro malgrado”: sostanzialmente pazienti psichiatrici e bambini, ovvero gli unici ancora in grado di esprimersi in modo spontaneo, senza filtri concettuali, e senza alcuna consapevolezza né interesse nei confronti del sistema dell’arte, della fama o del mercato (del resto, come diceva Jean Clair a proposito dei graffiti di Lascaux, l’uomo ha raggiunto da subito la perfezione). Dubuffet viaggiò in Europa e negli Stati Uniti, visitò innumerevoli ospedali psichiatrici (all’epoca in cui erano ermeticamente isolati dal resto del mondo, come i loro internati) e mise insieme una collezione che, nel 1976, diventò il nucleo della Collection de l’Art Brut di Losanna: un anti-museo, nelle sue intenzioni, con lo scopo di scuotere l’inerzia o la cattiva coscienza dell’arte istituzionale. Oggi, a partire dai 5mila pezzi originari, la Collection ne conta oltre 30mila ed è la più grande al mondo.
Sul suo esempio, luoghi nati apposta per esporre e conservare i lavori degli artisti irregolari sono sorti un po’ ovunque, soprattutto negli ultimi vent’anni: negli Stati Uniti, limitandoci a citare i più noti, ci sono il Folk Art Museum di New York, l’Intuit (The Center for Intuitive and Outsider Art) di Chicago e l’American Visionary Art Museum di Baltimora. In Europa abbiamo il MadMusée di Liegi e l’art) & (marges di Bruxelles, il danese GAIA, i francesi LAM di Lille, che affianca l’arte irregolare alla moderna e contemporanea, la Halle Saint-Pierre di Parigi, l’Abcd Art Brut di Montreuil, e poi l’austriaco Art/Brut Center Gugging, i tedeschi Kunsthaus Kannen di Münster e Prinzhorn Collection di Heidelberg, e soprattutto il Museum of Everything di James Brett, la cui vita itinerante in varie tappe (tra cui Torino, Parigi, Venezia) ha accolto, dal 2009 a oggi, oltre mezzo milione di visitatori. Un museo dedicato, nato intorno a un nucleo naïf, c’è anche in Estonia (il Kondas Centre) e, al di là dei confini europei, in Russia: il Russian Museum of Outsider Art di Mosca, che esiste dal 1989 e che ha una sede fissa dal 2000. Che siano anti-musei oppure no, di certo operano con un approccio per natura ibrido, interdisciplinare, spesso in collaborazione con i luoghi di cura e con varie professionalità a questi associate.
In tutto ciò il mercato non è certo rimasto a guardare. Svizzera, Francia e Belgio hanno canali di vendita consolidati, anche in virtù dell’attenzione istituzionale, e altrettanto si può dire dei Paesi anglosassoni. Le gallerie sparse in giro per il mondo si moltiplicano (il Musée Visionnaire, di recente inaugurato a Zurigo, è nato dalla collezione della Galerie Susi Brunner), e a raccogliere le più commercialmente motivate è New York con l’Ousider Art Fair. Nata nel lontano 1993, è cresciuta fino a diventare un contenitore espositivo che dal 2013 ha un avamposto anche a Parigi (a ottobre, in coincidenza con la FIAC). L’edizione newyorchese 2014 è slittata da gennaio a maggio (in coincidenza con Frieze) e si è svolta presso il Center 548, un edificio di Chelsea a pochi passi dalle gallerie più note al mercato internazionale: 47 espositori disposti su tre piani e arrivati, oltre che dagli Stati Uniti, da Brasile, Giappone, Europa.
E in Italia? Quanto è diffusa e come è percepita l’Outsider Art? Sarà il periodo storico, ma anche in questo ambito siamo in coda. Ha certamente dato una scossa la 55. Biennale di Venezia di Massimiliano Gioni. Affiancando gli artisti sconosciuti e irregolari ai grandi big della scena globale, e affidando la consacrazione del percorso da una parte al Palazzo Enciclopedico del bricoleur Marino Auriti che dava il titolo alla mostra, dall’altra al Libro Rosso di Gustav Jung, che apriva il Padiglione Centrale con un peso simbolico tutt’altro che marginale, Gioni ha insinuato il dubbio che i confini tra insider e outsider siano molto labili, oltre a esporre in primo piano le periferie dell’arte con un’operazione inaspettata e in grande stile (a quarantuno anni di distanza dall’intreccio, allora abbondantemente criticato, di arte contemporanea e irregolare che propose alla Documenta 5, nel 1972, il leggendario Harald Szeemann).
Nello stesso anno, inaugurato il 13 dicembre 2013, ha finalmente aperto i battenti il primo museo italiano dedicato. Si chiama MAI – Museo di Arte Irregolare e occupa la Manica Lunga di Villa Cattaneo (a Sospiro, in provincia di Cremona): nomi evocativi e un luogo non casuale, dal momento che il bellissimo edificio neoclassico è un istituto di riabilitazione psichiatrica che accoglie non solo le opere, ma anche i loro autori. La collezione include inoltre i lavori dei più importanti musei europei di Arte Irregolare, raccoglie quelli provenienti da altri luoghi di cura, centri diurni e atelier “protetti”, e poi organizza conferenze sul tema e workshop (chiamati “officine”). Il tutto con la programmatica intenzione di far sì che “questi spazi non diventino mai come un museo tradizionale”, ha spiegato in riferimento all’acronimo la direttrice Bianca Tosatti, storica dell’arte impegnata da decenni nella realizzazione del progetto e da altrettanto tempo nello studio della produzione outsider. Tra le numerose mostre dedicate, vale la pena ricordare Figure dell’Anima (1998), presentata prima al Castello Visconteo di Pavia e poi al Palazzo Ducale di Genova, proprio con lo scopo di ripercorrere la storia dell’arte irregolare nel corso del Novecento e imparare semplicemente a osservarla (senza pregiudizi, ma anche senza eccessi di verbalizzazione).
La prima galleria di sola Art Brut, Rizomi, è invece un primato torinese, seppure ad opera di due parmensi, Caterina Nizzoli e Nicola Mazzeo, che hanno dato il via all’attività il 29 ottobre 2010. La galleria ha da poco cambiato sede, passando dal precedente interno cortile a uno spazio centrale con vetrine in via Sant’Agostino 18; ha una fitta programmazione di mostre, pubblica cataloghi e dialoga costantemente con numerose realtà legate all’arte irregolare, in Italia e all’estero. Ma perché proprio Torino? “Quando abbiamo aperto”, spiega Nicola, “in un 2010 ancora pre-crisi, Torino era la città dell’arte contemporanea in Italia. Per molti versi lo è ancora, nonostante i ridimensionamenti (Rivoli, la GAM, le fondazioni ben note…). Ha poi una lunga tradizione di flirt con le forme irregolari, penso ad esempio a Piero Gilardi, ad ‘Arte Plurale’[l’anno scorso alla sua 20esima edizione, a cura di Tea Taramino, altra figura centrale nella promozione cittadina dell’arte irregolare, N.d.R.] e ospita, nei suoi musei secondari, opere di colossale valore, come il ‘Nuovo Mondo’ del carabiniere Francesco Toris e alcuni lavori della collezione Lombroso. Sempre nel 2010, la Pinacoteca Agnelli ospitava il Museum of Everything…”.
I collezionisti, però, sono ancora diffidenti. “Gli altri Paesi hanno una tradizione di interessamento all’Art Brut (Francia, Svizzera, Germania) o Outsider (USA) che si riflette anche sul mondo del collezionismo. Al contrario, in Italia, si è sempre avuta una ghettizzazione di queste forme espressive sulla base di un collegamento con la psichiatria e la malattia mentale, che non ha permesso di considerare le opere come prodotti artistici collezionabili. D’altra parte”, prosegue Mazzeo, “l’Italia aveva avuto un interesse enorme per l’arte naïf; credo che il relativo disinteresse per l’opera brut non dipenda esclusivamente dalla ghettizzazione a cui facevo prima riferimento ma, come insegna il caso dell’arte naïf, anche dalla storia sociale del nostro Paese. In fin dei conti l’Art Brut è sempre stata la risposta di contesti urbani avanzatissimi e all’avanguardia alla sterilità dell’arte ufficiale; il ritardo nella modernizzazione del nostro Paese, mentre spiega l’interesse per l’arte naïf, spiega il disinteresse per l’Art Brut; una cultura molto più rurale, la nostra”.
Comunque sia, Rizomi si sta dando da fare. Nella nuova sede ha già realizzato due mostre, una personale di Rosario Lattuca e la collettiva Living in America con tre artisti del Creative Growth Art Center di Oakland (William Tyler, Geron Spruill e William Scott). Rizomi era l’unico stand italiano all’Outsider Art Fair di New York, e quest’anno torna per la seconda volta all’Outsider Art Fair di Parigi. La sua stagione espositiva autunnale è iniziata a settembre con Dagli occhi rotti alle metamorfosi, personale dedicata a Cosimo Cavallo, torinese di origini pugliesi che vive da anni in strada, e casualmente scoperto da Luca Aztori, che ha curato la mostra e firmato il catalogo.
A Milano, inaugurata a maggio 2014 con una mostra sull’outsider francese Marie-Claire Guyot, la galleria Maroncelli 12 dichiara di voler aprire l’universo Art Brut anche alla capitale dell’Expo. Staremo a vedere.
Intanto, a monitorare la situazione in territorio nazionale, dialogando al contempo con le numerose realtà straniere dedicate all’arte irregolare, è l’Osservatorio Outsider Art, nato nel 2008 all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo per iniziativa della cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea. Nel 2011 l’Osservatorio ha assunto lo statuto di associazione onlus, continua a svolgere attività di studio e ricerca, promuove mostre e iniziative culturali, pubblica una rivista online (in italiano e inglese, e ora disponibile anche in versione cartacea). Con un occhio di riguardo per gli outsider insulari, di cui sono segnalati gli spazi espositivi istituzionali o a cielo aperto: dal Castello Incantato con le sculture di Filippo Bentivegna ai muri delle abitazioni di Castellammare del Golfo, dipinti da Giovanni Bosco.
Altra realtà a scopo di monitoraggio è quella dell’Accademia di Belle Arti di Verona, coordinata dalla docente di Storia dell’Arte Sociale Daniela Rosi, il cui progetto sull’Outsider Art ha dato avvio a vari atelier che, condotti da studenti dell’Accademia, si sono svolti presso aziende sanitarie del territorio (Verona, Mantova, Vicenza, Trento). Rosi, consulente artistica del Centro di riabilitazione neurologica Franca Martini di Trento, cura anche, sin dalla prima edizione del 2005, la sezione speciale di Outsider Art della fiera ArtVerona.
E sulla base delle opere e delle informazioni che, un po’ per volta, i neonati musei, gallerie e osservatori si stanno impegnando a promuovere e catalogare, è lecito supporre che il sottobosco sommerso dell’Arte Irregolare sia molto più ricco di quello della recente topografia in chiaro. Non si tratta soltanto di singole personalità dimenticate, ma dei tanti gruppi di lavoro che funzionano come botteghe artigianali in cui pazienti psichiatrici, operatori e artisti lavorano fianco a fianco, confondendo ruoli e cartelle cliniche. Un esempio su tutti è l’Atelier di Pittura Adriano e Michele, nato nel 1996 all’interno del Centro Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro (Milano) con l’esigenza di far convergere pratica artistica e terapia psichiatrica (condivisa e sostenuta, al tempo, dalla stessa Bianca Tosatti). Come “visitor professor” del ciclo Acrobazie hanno tenuto workshop Sandrine Nicoletta, Marcello Maloberti, Sara Rossi, Francesco Simeti e Flavio Favelli.
In attesa di nuovi spazi di accoglienza, l’esito della libera e bizzarra creatività irregolare si può osservare a cielo aperto in ogni angolo della Penisola: basta seguire le indicazioni dei Costruttori di Babele, il sito che censisce tutte le costruzioni incatalogabili (“babeliche”, appunto) italiane, suddivise per regione e accompagnate da descrizione, documentazione fotografica e indicazioni stradali: case ricoperte di conchiglie, sculture sparse per i boschi, installazioni in cartapesta in aperta campagna… Un work in progress, quello della loro catalogazione su web, nato da un’idea dell’antropologo ligure Gabriele Mina, che traccerà una geografia non meno visionaria ed enciclopedica dell’utopico progetto museale di Auriti: con la differenza che tutto già esiste. Come ha fatto Jarvis Cocker (sì, il cantante dei Pulp) per realizzare il documentario Journeys into the Outside, basta uscire dalle gallerie e andarlo a cercare.
Sara Boggio
per tutte le immagini: © Costruttori di Babele
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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