Una lunga notte. Quella del 1943, quella di oggi
L’inverno del ’43, a Ferrara, in Italia: una città livida, nebbiosa, in cui tutti i personaggi dall’inizio alla fine sentono freddo anche in casa. Perché il freddo è dentro di loro. È dentro le persone. Cosa può insegnare oggi “La lunga notte del '43”, un film del 1960?
Ne La lunga notte del ’43 (1960) il freddo è quello di un’atmosfera di totale insicurezza e precarietà, di minaccia indefinita che costantemente è presente e insieme lontana, tenuta a distanza di sicurezza (“bombardano Bologna…”). Il gelo è quello del trauma che sta avvenendo, lacerando il tessuto già fragile di una comunità cittadina e nazionale: le sicurezze piccolo-borghesi, il posto, l’attività professionale.
In questo quadro estremamente deteriorato di relazioni e di civiltà, in cui gli esseri umani appaiono tutti concentrati a conservare i gusci delle loro esistenze precedenti, e pochissimo a immaginare il tempo che verrà; in questo momento di attesa indefinita, di sospensione nel tempo della Storia e della propria esistenza (Ferrara era stata, non a caso, la culla della Metafisica), la coppia protagonista – Franco Villani (Gabriele Ferzetti) e Anna Barilari (Belinda Lee) – appare sin dall’inizio impossibilmente tesa a perpetuare e far rivivere l’amore passato, le emozioni di una vita precedente. Questa operazione nostalgica di un film che parla di nostalgia e che è intessuto di nostalgia (realizzato da un coraggiosissimo esordiente come Florestano Vancini, sulla base di un racconto tratto dalle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani) segna la rimozione del contesto tragico che si sviluppa attorno ai due, e che si concentrerà nel nucleo narrativo e visivo della fucilazione che è l’oggetto – l’evento della “lunga notte”, dopo la quale nulla sarà come prima.
Ferrara, Italia, 1943: tutti i personaggi che ci scorrono davanti agli occhi e che impariamo man mano a conoscere sono bloccati, come congelati in una singola versione di sé. Il paradigma di questo blocco è la paralisi fisica, dovuta a una malattia venerea contratta durante la marcia su Roma, del marito di Anna, Pino (Enrico Maria Salerno): è il carattere più complesso, sfuggente, ambiguo del racconto. La sua impotenza fisica si riflette in quella morale e politica: nonostante sia l’unico testimone oculare della strage, il suo “stare alla finestra” coincide con quello di un intero Paese, che tranne nel caso delle rare eccezioni decide di non decidere e si fa travolgere dagli eventi, da altre volontà più brutali e immediate. Come quella del cattivissimo gerarca Carlo Aretusi (Gino Cervi), soprannominato “Sciagura”: si può dire anzi che la sua psicologia, proprio per l’assenza totale di introspezione, sia l’unica veramente dinamica all’interno della narrazione. In grado di adattarsi mostruosamente all’ambiente circostante, e di determinare gli eventi e il loro corso. Anche, in definitiva, la loro percezione futura, la dimensione della memoria e quella dell’oblio collettivi: nel comizio della penultima scena, lo sentiamo affermare con voce stentorea che “il passato sarà cancellato, le colpe saranno redente!”.
Laddove si istituisce un parallelo significativo tra rimozione del passato e redenzione delle colpe che non solo costituisce l’argomento stesso di riflessione del film, ma che dovrebbe essere uno dei temi centrali di discussione pubblica anche oggi: il tipo di relazione che l’Italia costruisce e intrattiene con il proprio passato, lontano e recente, era ed è un terreno importante e scivolosissimo. Ritroveremo poi “Sciagura” nella preziosa scena finale, nel presente del film, completamente cambiato ma identico a se stesso, nella prepotenza e nella caparbia irresponsabilità. Franco, Pino e Aretusi sono in definitiva tre volti dell’Italia – l’acquiescenza, la fragilità morale e la violenza – che, dopo il Ventennio, si appresta a mutare pelle e a soccombere per trasformarsi nella nazione post-bellica, una nazione sconfitta che non rifiuta di sentirsi tale e dunque di elaborare questa sconfitta.
È lui che costruisce lo “spettacolo” dei cadaveri davanti al muretto del Castello Estense, spettacolo a cui assistono i cittadini come davanti a un prisma vetrificato e malefico che sta orientando la loro stessa vita al di là della paralisi e dell’attesa, oltrepassate con un colpo di coda drammatico. Ad assistere c’è anche Anna, che con il suo paragonare i morti a un “mucchio di stracci vuoti” rispecchia Berta, la fidanzata di Enne 2 e co-protagonista di Uomini e no (1945) di Elio Vittorini, capostipite della letteratura resistenziale. Come Berta, anche per Anna questa scoperta dolorosa coincide con la consapevolezza e la scelta morale.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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