Architettura e politica. Intervista a Wouter Vanstiphout
L’ambiente circostante, si sa, influenza il nostro comportamento. Ancora di più se il luogo in cui viviamo è straniante. Alla luce anche dei numerosi episodi di violenza, quanto l’architettura è responsabile di agitazioni sociali e frustrazioni? Di questo, del caso italiano e dell’atteggiamento distaccato degli architetti che non sanno mettersi in discussione ne abbiamo parlato con l’architetto e storico olandese Wouter Vanstiphout. In una conferenza alla British School at Rome, parte del programma Meeting Architecture, e in un libro di prossima uscita, ecco la sua tesi non convenzionale.
Breve auto-presentazione. Chi è Wouter Vanstiphout?
Sono uno storico dell’architettura, fondatore di Crimson Architectural Historians, uno studio che dal 1994 fa ricerche, cura mostre, progetta e gestisce progetti di rigenerazione, offrendo consulenza e realizzando libri principalmente sull’urbanistica postbellica. Sono anche docente di Design & Politics alla Facoltà di architettura alla TU Delft e al momento sto lavorando a un libro sul rapporto tra rivolte, proteste, politiche urbane e architettura che verrà pubblicato da Verso il prossimo anno.
La tua conferenza A Clockwork Jerusalem: Architecture, Politics, Riots and the belief in a better world alla British School at Rome aveva l’obiettivo di riaffermare la dimensione politica dell’architettura. Perché questa esigenza?
Perché l’architettura e l’urbanistica sono comunque politiche. Questo è dovuto all’effetto che hanno nello spazio pubblico, alle politiche che sono richieste dalla loro realizzazione e dal loro finanziamento e al modo in cui vengono utilizzate dal potere privato e delle Istituzioni pubbliche. Infine è dovuto al fatto banale che hai bisogno dei soldi degli altri per fare architettura.
Perché secondo te una parte consistente degli architetti, e delle loro architetture, si è dissociata dall’impegno politico?
Gli architetti tendono a nascondere le implicazioni politiche dietro diverse apparenze. Quella dell’intellettualismo, della tecnocrazia, del “mestiere” o della soggettività dell’arte. Sembra vogliano isolarsi dalla pressione e dalle richieste di coloro su i quali progettano così facilmente le proprie speculazioni. I progettisti hanno paura di intavolare un dibattito vero con il pubblico e con le persone le cui vite influenzano perché questo li esporrebbe a una radicale incertezza.
Quali sono gli esempi di architetture che negano il proprio ruolo politico?
Sarebbe facile parlare dei progetti iconici dell’élite degli architetti internazionali. Questi espongono le qualità formali e cinematografiche dei lori progetti ma non possono difendere onestamente le modalità in cui questi sono stati finanziati, decisi o usati. Allo stesso modo, anti-politica è la retorica di quegli architetti che affermano di migliorare le cose nei progetti di rigenerazione, così come quelli che si focalizzano sulle qualità spaziali, sul contesto e sulla continuità storica, mentre allo stesso tempo stanno permettendo forme aggressive di gentrificazione e l’espulsione delle comunità dai loro centri storici.
Dove questo fenomeno avviene con maggiore evidenza? E perché?
Questo fenomeno è apparentemente ovunque ma penso che l’Italia sia un caso interessante dove, nonostante la tradizione della sinistra radicale nelle università, l’architettura e l’urbanistica sono state insegnate come un mestiere auto-referenziale, un’arte quasi cinica, un linguaggio morto di forme o, invece, ma allo stesso modo politicamente naïf, come una scienza determinista che mette sullo stesso piano una “buona” forma di città e una società giusta. Penso che la combinazione del cinismo derivato dalla teoria di Tafuri, che nega ogni contenuto politico o efficacia dell’architettura, insieme con la scuola di pensiero sull’autonomia delle forme elaborata dopo Rossi, sia qualcosa che non è stato criticato abbastanza e dovrebbe essere chiarito.
Durante la conferenza hai fatto notare come spesso l’architettura è anche responsabile di agitazioni sociali. Come esempio hai citato i recenti fatti di Parigi, il violento attacco terroristico alla redazione di Charlie Hebdo. Spiegaci meglio questo punto…
Spesso le rivolte, i radicalismi violenti e i crimini hanno origine in progetti residenziali dilapidati, ai margini delle nostre città. Una certa scuola di determinismo della forma ha incolpato il progetto e usato questi eventi in una battaglia ideologica tra “contestualisti” e modernisti. Mentre, in realtà, non era il progetto ad aver causato l’alienazione ma il processo di pianificazione di massa dall’alto verso il basso. Lo stesso avvenuto per la rigenerazione, la decisione politica che ha portato all’isolamento sociale ed economico, il veloce rimpiazzo di un paradigma urbano con un altro, lasciando questi quartieri residenziali a coloro che non hanno il potere di scegliere dove vivere.
In che modo l’architettura contemporanea può recuperare la sua dimensione sociale e politica?
Penso che l’architettura debba fare i conti con il concetto di incertezza, di democrazia e di partecipazione. I progetti urbanistici e architettonici sono visibili e rappresentano le più provocative incarnazioni della politica, dovrebbero quindi essere soggetti allo stesso regime di legittimazione che pretendiamo dalle altre forme di politica. Gli architetti dovrebbero imparare a difendere i loro progetti non solo davanti ai loro pari o ai loro clienti, ma davanti al pubblico. Dovrebbero imparare ad accettare che questo potrebbe voler dire che non realizzeranno quello che era nelle intenzioni del progetto, ma qualcos’altro, qualcosa che, nel suo processo, riflette la complessità da cui proviene.
In quest’ottica cosa sta facendo il tuo studio?
Dal 1994 abbiamo visto ogni lato della trasformazione urbana, dell’architettura e della pianificazione, siamo stati clienti e progettisti, utilizzatori e curatori, consulenti e critici.
Storici e imprenditori. Con il lavoro che stiamo facendo, che sia il focus internazionale della partner Michelle Provoost che è attiva in Africa e Asia dove sta cercando di diversificare e aprire il processo di pianificazione nelle nuove città, o che sia la mia attività come advisor del governo olandese, stiamo cercando di spingere verso la trasparenza, la partecipazione e la legittimità democratica, in un mondo che diventa progressivamente sempre più complesso e opaco.
Zaira Magliozzi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati