Arte e cultura: chi cerca, trova. E chi ricerca, spreca
C’è un acceso dibattito su come vengono gestiti i fondi che l’Unione Europea indirizza alla ricerca, su quali nazioni abbiano avuto accesso a più finanziamenti e quali siano le organizzazioni più attive su questo fronte. Meno abituale è invece il dibattito legato allo svolgimento dei progetti finanziati, ai risultati che apportano allo stato della ricerca e se c’è un giusto equilibrio tra l’investimento che la comunità sostiene e i benefici che essa ne ricava.
Ricerca&Sviluppo sono gli elementi essenziali per la crescita, e basta guardare alla storia dell’economia per comprendere appieno il significato di questa affermazione, ma perché questa si verifichi è necessario che i due termini rimangano inscindibili l’uno all’altro. Non c’è sviluppo senza ricerca, ma una ricerca che non porti sviluppo (o potenziali sviluppi successivi) è una perdita netta in termini di risorse, tempo e denaro.
In quanto italiani, abbiamo una visione forse distorta sul mondo della ricerca e su quel mondo di “politici con la laurea” che può essere l’Università. La nostra visione, inutile nasconderlo, è quella di un microcosmo che presenta tutti i problemi dello scenario che rappresenta, e che quindi additiamo come “mali atavici” dell’essere italiani. Ma dopo un po’ di esperienze “internazionali” sorge il dubbio che questo non sia un male solo italiano. Almeno, non nel campo delle discipline non strettamente scientifiche.
Il Cordis mette a disposizione di chiunque sia armato di buona volontà i più recenti risultati dei progetti finanziati, distinguendoli per categoria, programma di finanziamento e Paese del soggetto che ha ricevuto il finanziamento o del coordinator nel caso i partner siano in numero maggiore di uno (formula che rappresenta la prassi per progetti di questo tipo).
Fare una ricerca in questo senso non è estremamente semplice per due ordini di motivi: il primo è che il Cordis non contempla la categoria “cultural studies” o affini tra i possibili temi; il secondo, strettamente correlato al primo, è che i progetti di ricerca legati (anche indirettamente) alle materie umanistiche sono molto pochi.
Tralasciando i motivi di tale scarsità, può essere utile solo ribadire che, a fronte di un campione di mille progetti, le ricerche legate a tematiche quali “beni culturali”, “arte” o “musei” sono cinque, di cui due legati agli aspetti strutturali del Cultural Heritage (effetti del cambio climatico ed efficienza energetica) e pertanto fuori dall’obiettivo di quest’analisi, lasciando il campo a solo tre progetti.
C’è da dire che l’ostacolo maggiore da superare per un progetto è quello della selezione iniziale: i valutatori hanno a disposizione un’enorme mole di progetti e vincere la concorrenza in questo passaggio non è semplice. Ma questi tre progetti non hanno solo superato la soglia dei competitor: l’hanno fatto ottenendo un finanziamento pari al 100% dei costi stimati, per una spesa complessiva di circa 280mila euro.
Trattandosi di Unione Europea, non sembra una cifra eccessiva, e ci sono progetti il cui costo è quasi cento volte più alto. Ma basterebbero comunque a retribuire onestamente (1.300 €/mese) un team di sei ricercatori per tre anni. E di questi tempi non è certo cosa da poco.
Quasi come un buon conto economico, abbiamo definito i costi e anche un possibile impiego alternativo di tali risorse (trade-off). Vediamo dunque quali sono i benefici di questo investimento. I progetti sono rispettivamente: Marketing Conservation Services, costo totale del progetto € 45.000; Improving Museums Information Displays, costo € 75.000; National Perspectives on European Heritage Policies, costo € 159.100. Ognuno di essi è stato condotto da una sola organizzazione (cosa alquanto rara, è giusto ripeterlo) e in ordine: Università Europea Viadrina di Francoforte (Germania), Università di Haifa (Israele), Libera Università di Bruxelles (Belgio).
Tutti e tre i progetti sono stati ultimati, e quindi per tutti e tre è disponibile un “final report” che illustra i risultati raggiunti dalla ricerca. Nel primo caso, che tra l’altro rappresenta il proseguimento di un altro progetto, svolto sul caso specifico di Malta, si legge che “è stato realizzato un questionario di 48 item, indirizzato a esperti di conservazione dei beni culturali (n° soggetti: 519)”. Sulla base dei risultati raggiunti attraverso questo questionario e il precedente progetto (anch’esso co-finanziato dall’Unione Europea) è stato evidenziato un set di valori per il marketing della conservazione dei beni culturali, e a tal riguardo verrà pubblicato un libro nel corso di quest’anno. In particolare, gli impatti positivi di questo progetto sono enunciati e sono: aumento della comprensione tra l’esperto di conservazione e il possessore del bene culturale; consapevolezza da parte dei conservatori sugli strumenti di marketing legato alla conservazione dei beni culturali; enfasi dei benefici che una valida conservazione dei beni culturali può restituire nel tempo; sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema della conservazione dei beni culturali.
Il final report del secondo progetto riporta i risultati del doppio filone di lavoro che ha seguito (Work Package, o WP in europanese). Durante il primo WP i ricercatori hanno effettuato una ricerca su quattrocento visitatori di un museo, sulla base della quale affermano che i visitatori singoli che fanno utilizzo di una guida hanno un periodo di visita più elevato, ma che l’uso di un device riduce l’interazione tra quei visitatori che avevano fatto visita al museo in piccoli gruppi. La soluzione che propongono è dunque l’apposizione di schermi informativi durante il percorso del museo, che interagiscano con i singoli device che possiedono gli individui, grazie al quale poter pianificare la propria visita. Il report conclude che i risultati di questa ricerca enfatizzano la necessità di implementare all’interno del contesto museale l’interazione sociale tra i piccoli gruppi.
Arriviamo dunque all’ultimo dei tre progetti, che ha come obiettivo quello di stabilire come vengano percepite in Francia e in Italia due criteri essenziali nella definizione di un Patrimonio Intangibile dell’Umanità, vale a dire quelli di “partecipazione” e di “comunità”. A tal riguardo “la ricerca ha mostrato che l’adozione del concetto di Heritage sostenuto dalla Convenzione Unesco del 2003 comporta una revisione nazionale della struttura dei quadri normativi nazionali […] e che questo passaggio è particolarmente difficile per quelle istituzioni più risalenti, che si basano su approcci e capacità consolidati, come nel caso della Francia e dell’Italia”.
Non si vuole qui tracciare una linea di giudizio. Non si vuole nemmeno sostenere che questi progetti siano stati inutili, o che non abbiano portato a risultati utilizzabili in futuro. Si vuole però sostenere che la frase accademica di rito “ulteriori ricerche sono necessarie per” non può essere sempre un valido alibi, così come si vuole evidenziare che nessuno di questi tre progetti era italiano, con buona pace di coloro (italiani e non) che vedono il nostro Paese come la culla dei fannulloni, in un mondo che invece procede a ritmi vertiginosi.
Il problema allora va cercato altrove, e vale a dire proprio in quel binomio Ricerca&Sviluppo che in molti casi sembra essere male interpretato: lo sviluppo a cui si allude è quello della comunità e non della carriera di questo o quel ricercatore.
Stefano Monti
http://cordis.europa.eu/home_it.html
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