Biennale di Venezia. Appunti sul Padiglione Italia
A caldo ma non troppo, alcune valutazioni sulla presentazione del Padiglione Italia curato da Vincenzo Trione per l’imminente Biennale di Venezia. Le trovate in questo editoriale di Claudia Colasanti, firma del Fatto Quotidiano e naturalmente di Artribune.
La maggior parte della stampa presente oggi 26 marzo, più o meno coeva all’età del curatore Vincenzo Trione e del Ministro Franceschini, esce a grappoli cicalanti, mestamente, un po’ confusa e disorientata, dalla breve conferenza stampa (concesse alla fine appena tre domande, striminzite, al pubblico).
Stavolta non si tratta di culatelli e scosciamenti sgarbiani, e tantomeno di consolidati circoli blindati white cube, o di colpi di scena mutandari. Il tono è sobrio, gli abiti scuri, la voce severa, ai limiti di un presuntuoso accademismo, sostanzialmente privo di slanci (a parte la riscoperta dell’ultracitato riscoperto cineasta Tambellini), decisamente tristanzuolo.
Non che si debba necessariamente imporre alla visione del contemporaneo – qui marchiato a fuoco con il cutugnano titolo Codice Italia – un’eccessiva spensieratezza (o con una parola in disuso, una “sperimentazione”) di intenti, ma almeno affidarle un ruolo sganciato da etichette che blindano il demiurgo moderatore istituzionale di turno dietro un muro di tematiche e di formule retoriche, prive di collegamenti visibili con gli autori selezionati.
Invece, altro che coordinatore o curatore: fra le prime urgenze di Trione c’è proprio quella di specificare la distanza fra lui, autentico “critico d’arte”, che non si riconosce nella figura del “curatore” poiché non si occupa del presente e della fenomenologia dell’oggi, bensì del “trovare elementi ricorrenti attraverso la centralità della critica d’arte”. Dunque per far affiorare questo imperscrutabile “codice Italia” e la sua “inconfondibile identità linguistica”, le parole chiave di Trione sono due: il codice genetico “che ci trasforma e collega all’esistenza” e lo stile “che si esterna attraverso il talento individuale”.
Nel suo progetto (che pareva essere privo di fondi, invece risulta nuovamente foraggiato come i precedenti, per circa un complessivo milione di euro) appaiono in fila numerose istanze: il lavoro sul concetto di ‘avanguardia’, la storia dell’arte, i frammenti del vissuto, il rimando ad altri mondi, l’archivio, l’immagine ibrida, il cinema, le periferie da riabilitare, l’ansia esistenziale e la paura della perdita della memoria. Tanti ‘pensieri e parole’, strati barocchi di appunti sparsi, per un panorama in divenire che comprende tutto e il suo contrario, esclusi – stavolta senza esaurienti giustificazioni – il rumore di fondo dell’attualità, il ‘ripiegamento’ sul presente (che dovrebbe essere centrale in una biennale nata all’inizio secolo scorso per concentrarsi sullo Zeitgeist dell’oggi) e l’allestimento liquido (che infatti dalla pianta appare squadrato e suddiviso in cellette). Se aggiungiamo i quesiti sul ‘chi siamo e da dove veniamo’ manca solo Mogol, che potrebbe elaborare un buon testo per il prossimo Sanremo.
La soluzione formale (o il fardello linguistico esistenziale) viene quindi affidata agli esiti dei quindici artisti selezionati, che forniranno due opere inedite “in sintonia col progetto”: Kounellis, Paladino (Arte Povera e Transavanguardia); due grandi isolati (?) Parmiggiani e Gioli, Tambellini come erede delle neoavanguardie del dopoguerra; Biasucci, Caccavale, Aquilanti (personalità difficili da iscrivere dentro tendenze); Beecroft (voci tra le più originali dallo scenario internazionale) e Alis/Filliol, Barocco, Migliora, Monterastelli e Samorì (artisti dell’ultima generazione).
Sui suoi stessi protagonisti, i loro mondi e opere, regionali, nazionali o identitari, sulle differenti generazioni, sulle connessioni tra il progetto e le loro singole peculiarità, Trione si sofferma poco, tranne che su Aldo Tambellini (residente a Cambridge), che descrive come artista dimenticato e vissuto ai margini, uno dei cineasti più influenti dell’Expanded Cinema. Anche il cinema e la letteratura rientrano nel progetto di Trione e arrivano (o dovrebbero) anche in forma di clip, con un video online sul sito del Padiglione girato da Mimmo Calopresti che, secondo il critico, punta a evocare il clima che si avverte nel ‘dietro le quinte’. Il video parte con l’inquadratura di una statua classica, passando sull’ingrandimento della Deposizione di Pontormo; poi zumma su mani che scalpellano, che dipingono e disegnano, sul Cenacolo di Leonardo e su Piero della Francesca. Brani di pittura inquadrati alla maniera di Carlo Ludovico Ragghianti (però nei pioneristici documentari d’arte, Anni Sessanta) di Caravaggio, Mantegna; poi Burri e Fontana e infine foto di Pasolini, dei suoi set e del luogo della sua morte.
Sul fatto che tutto ciò che il video preclude appartenga al nostro Dna nessuno nutre dubbi, ma come si collega tale didattica elementare (anche formale, da spot turistico) con gli elementi di complessità – la traiettoria di archiviazione dal passato al futuro legati ad un codice comune – richiesti ai quindici artisti?
Nel ribadire che il punto nodale è “il prestigio e la qualità scientifica della ricerca”, Trione viene colto di sorpresa dall’ultima domanda concessa al pubblico in sala, sul perché non si fosse focalizzato su meno presenze (nella direzione in cui operano altri ottimi padiglioni nazionali). Piccato, ha risposto: “Il mio è un punto di vista, non una collettiva. Ho una strategia critica e sono libero di sostenere la mia metodologia, le collettive non hanno logica”. Era più semplice dirlo subito, essendo comunque lecito per ogni curatore o critico d’arte nel suo libero esercizio, attraverso l’unico concetto inespresso: il ‘mio’ gusto e il ‘mio’ padiglione. Manca però ancora una parola importante, sintetica ed efficace, che non è di Trione, ma ‘mia’, in maiuscolo: CAOS.
Claudia Colasanti
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