Biennale di Venezia. Il padiglione dell’Albania spiegato da Marco Scotini
Il Padiglione albanese alla 56. Biennale d’arte di Venezia sarà caratterizzato da tre lavori del drammaturgo albanese Armando Lulaj. Una trilogia filmica sul periodo della Guerra Fredda in Albania, ma non solo. Sta per prendere vita, infatti, un nuovo progetto inedito dello stesso Lulaj. Ne abbiamo parlato con il curatore del Padiglione, Marco Scotini.
Armando Lulaj (Tirana, 1980) è un drammaturgo, scrittore e creatore di scritti e video su zone pericolo e immagini di conflitti. Tra le sue partecipazioni si contano: lo Städtische Kunsthalle München (2010), senza dimenticare Lost in Landscape, MART, Rovereto (2014); la 63esima Berlinale (2013); la sesta Berlin Biennial (2010); l’ottava Baltic Biennale of Contemporary Art, Szczecin, Polonia (2009); il Padiglione albanese alla 52. Biennale di Venezia (2007); la Biennale di Tirana (2005) e la BBiennale di Praga (2003 e 2007).
Per la sua seconda partecipazione alla Biennale di Venezia, Lulaj presenta una trilogia filmica a conclusione di molti anni di ricerca, sul periodo della Guerra Fredda in Albania; percorso dedicato ai relativi temi della memoria collettiva e dell’esperienza storica. Il primo lavoro di questa serie sarà il film It Wears as It Grows (2011). La seconda opera della trilogia è invece il noto Never (2012), che è stato ampiamente esposto a livello internazionale. Il terzo lavoro, Recapitulation (2015), sarà invece realizzato appositamente per la Biennale.
Il progetto, curato da Marco Scotini, è stato selezionato attraverso un’open call indetta da una giuria internazionale presieduta da Boris Groys e che ha annoverato, tra gli altri, Kathrin Rhomberg, Adrian Paci, Alberto Heta e un rappresentante del Ministero della Cultura. Artribune ne ha approfondito alcuni aspetti con il curatore.
Raccontaci titolo e tema del Padiglione Albanese alla 56. Biennale di Venezia. Come verranno messe in atto le strategie della trilogia albanese? E perché rappresenteranno una conclusione, un punto di arrivo per le ricerche di Armando Lulaj?
Credo che per l’Albania quella del 2015 rappresenti, in un certo senso, una sorta di prima partecipazione nazionale alla Biennale d’Arte di Venezia. Non per attenuare l’impatto delle edizioni precedenti, ma perché questa edizione è la prima da quando nel 2013 Edi Rama ha assunto la carica di Premier. Penso dunque che ci sia una volontà politica di segnare una svolta. Per questo è stato scelto uno spazio centrale all’Arsenale ed è stata nominata una commissione selezionatrice, composta da figure come Boris Groys, Kathrin Rhomberg, Adrian Paci e altri.
Dunque, ho pensato che fosse importante non solo presentare un giovane artista già riconosciuto a livello internazionale, ma raccontare anche una parte della stessa storia sociale albanese. Il tema della memoria incrocia, da anni, tanto i miei interessi che quelli di Lulaj: ebbene, tutto ciò è sembrato un buon punto di partenza per poter progettare il padiglione albanese. Quando poi Okwi Enwezor ha presentato il suo programma sull’Angelo della storia di Benjamin, ci è parsa una prova ulteriore che la direzione scelta fosse stata quella giusta. Il titolo “trilogia” ci rimanda a un corpus narrativo unico ma articolato in tre capitoli distinti, che hanno richiesto cinque anni di lavoro, e l’ultimo dei quali sarà portato a compimento da Lulaj per la Biennale veneziana.
Quando, per la prima volta, sei venuto a contatto con il lavoro di Lulaj? E quali aspetti del suo percorso ti hanno colpito?
Conosco Lulaj dai primi anni dello scorso decennio e mi interessava il carattere performativo del suo lavoro, così come l’assunzione di una buona dose di rischio quale ingrediente della sua ricerca visiva. Nel 2004, quando ha realizzato Living in Memory, ha dato la prova più convincente del lavoro fatto fino ad allora: un progetto che anche adesso Lulaj non cessa di sviluppare. Una stella gigantesca a cinque punte ha brillato nel tempo di una notte sulla cima del monte Dajti, sopra Tirana. Il fuoco sulla stella, fatta di legno e materiale di risulta, ha continuato a bruciare fino a quando l’apparizione del simbolo luminoso è stata riassorbita dall’oscurità. Ecco che i fantasmi (collettivi, utopistici, del socialismo) hanno cominciato a popolare il suo lavoro e non l’hanno poi più abbandonato.
Come il lavoro di ricerca di Lulaj interagirà con il pubblico dei visitatori? Quali luoghi, paesaggi e territori verranno evocati attraverso l’esposizione del suo progetto?
Albanian Trilogy si proporrà come una sorta di macchina museale con strani cimeli e trofei, dove fiction e documenti saranno presentati assieme. Il lavoro di Lulaj (come recita il sottotitolo, “una serie di stratagemmi equivoci”) gioca soprattutto sui gap della storia: mostra terreni friabili lì dove ci si aspetta di trovare potenti rappresentazioni non scalfibili.
Ci si domanderà: che ci fa lo scheletro originale di una balena del Mediterraneo lungo 11 metri dentro uno spazio dedicato alla storia politica? Siamo sicuri che sia al suo posto? Che ci fanno le foto private di bambini di fronte al monte Shpiragu? Perché posano lì di fronte e non altrove?
Quale sarà la sua definizione di Guerra Fredda? E come verrà rappresentata al meglio (attraverso supporti, percorsi, concetti, diversi media e via discorrendo)?
Non credo che l’intento sia quello di fornire un’immagine della Guerra Fredda nei Balcani. Il progetto ha più a che fare con microstorie, dettagli marginali, scarti mnemonici, oppure spie. Si tratta di riflettere sulla trasparenza e sull’opacità delle cose: sul modo in cui esse ci appaiono in un periodo e su come siamo pronti a vederle in maniera diversa in un altro momento. Come carichiamo le cose di certi significati e come poi glieli sottraiamo. I regimi di visibilità sono realtà importanti e anche il progetto di Lulaj si interroga su questi. In esposizione ci sono delle cose reali ma anche le loro proiezioni evocative, il loro stato spettrale, nei film che costituiscono la Trilogia.
E come, invece, verrà definita una sorta di memoria? Come potrà essere rappresentata, evocata e immaginata dalla pratica artistica di Lulaj?
Lulaj mostra delle tracce incomplete sotto forma di documenti e trasforma lo spazio della loro messa in scena in un teatro aperto a differenti ipotesi, congetture e narrative individuali, plurali, antagoniste, in cui il senso non è già dato una volta per tutte. C’è una natura performativa. Si tratta di politiche della memoria: sempre pronte a rinegoziare con il passato, a metterlo in discussione, a riscriverlo. Certo, ci sono delle impronte, degli indizi: ma di che cosa sono il segno? Come possiamo decifrarli? Cosa ci diranno non solo del passato, ma anche del futuro? Gli antichi avevano gli aruspici o i maghi ma oggi noi non disponiamo più di nessuna scienza divinatoria.
Quale scenario visuale, quale atmosfera culturale i lavori di Lulaj assegneranno al Padiglione albanese in Biennale?
Da anni lavoriamo sugli archivi e sull’idea di un’archeologia del presente. Credo che il Padiglione albanese aggiungerà un altro tassello al lavoro che da anni stiamo facendo sulla decostruzione della modernità. Interverremo sull’idea di storia e sull’idea di esposizione, simultaneamente.
La storia e le caratteristiche struttural-architettoniche dell’Arsenale entreranno in dialogo con i lavori di Lulaj? Che cosa ne ha pensato lui degli spazi, la prima volta che li ha visitati per concepire il proprio progetto dedicato alla 56. Biennale?
Non si tratta di un lavoro site specific, non interagisce con quello che ha trovato all’Arsenale: parla di una storia che è quella albanese. Forse sarebbe meglio dire che è un intervento time specific. Qualcosa che tiene conto del tempo della Biennale, dei suoi visitatori temporanei, delle loro aspettative, dei ruoli: per questo lo spazio espositivo dichiara la propria natura fittizia e transitoria. Ricrea un piccolo display museale, accompagnato, più che da un catalogo, da una sorta di atlante storico sul tempo della Guerra Fredda in Albania. Il Padiglione mantiene così lo spirito dissacratorio e profanatorio del resto dei lavori di Lulaj.
Tra It Wears as It Grows, Never e Recapitulation (peraltro unico lavoro inedito presentato) quale tipologia di esperienza visuale sarà offerta?
Sono lavori filmici bellissimi che raccontano tre storie diverse, in luoghi diversi, come Tirana, Berat e Argirocastro. Ma anche racconti di tre tempi diversi: la cattura di un aereo nemico nel 1957; un incidente sottomarino tra avversari politici del 1963; l’inscrizione di un messaggio politico a scala territoriale nel 1968. Diciamo che però che questi eventi, attribuiti a un passato, ritornano nella realtà presente in maniera alterata, come fantasmi appunto. Pronti per altre storie non previste. Al centro di ognuno di questi eventi c’è una soglia limite di indeterminazione tra modelli ideali e fatti sensibili, tra idee e storia. Tutti ruotano comunque attorno alla figura ingombrante del leader socialista albanese Enver Hoxha.
Come Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems integrerà i diversi aspetti toccati con il tema principale della Biennale All the World’s Futures?
Per questo dovremo stare a vedere. Come ho cercato di spiegare, c’è più di un presupposto comune con la mostra di Enwezor: vedremo l’Albanian Trilogy quale capitolo occuperà all’interno di All the World’s Futures.
Un tuo desiderio rispetto a tutto questo?
Come ha detto Chris Marker in Sans Soleil, “non ricordiamo; riscriviamo la memoria”. Mi auguro che la nostra “riscrittura” possa chiarire al pubblico molti problemi del presente in attesa che l’ignoto (che viene o che c’è già) bussi alla porta.
Ginevra Bria
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