Bruxelles, pratiche dello spazio vissuto
Capitale del Belgio e de facto dell’Unione Europea, Bruxelles è da anni uno dei centri internazionali per la creazione performativa. Ce la raccontano artisti e performer italiani che hanno scelto di farne il proprio spazio di vita e d’azione. Le pratiche artistiche diventano modi per perturbare i meccanismi di appartenenza, negoziare modelli sociali e culturali, riposizionare i coefficienti spaziali nel corpo a corpo...
Nel 2010 Anna Rispoli, artista, performer e membro di Zimmerfrei, insieme a Anna De Manincor e Massimo Carozzi realizza LKN Confidential, portrait filmico di un quartiere di Bruxelles visto da dietro le vetrine degli esercizi pubblici di rue de Laeken/Lakensestraat. La penetrazione della città si stratifica nel tempo attraverso strategie di negoziazione urbana alla ricerca di comunità temporanee, posture non collaudate e non garantite. “A sud di Bruxelles”, ci racconta, “c’è l’autostrada e la campagna, l’Ikea e il dressage per cani, il canale e la piscina dove vanno i bambini che non sono mai stati al mare. E un campus francofono e uno fiammingo. Dalla torre del campus si osserva, a 360 gradi, l’assemblaggio urbano. L’impressione è che non si riesca a cogliere un disegno unico, e che in fondo la città abbia più senso quando è esperita dal basso, scegliendo tra uno dei mille punti di vista soggettivi e situati”. Nasce così Retroterra, lo spettacolo creato per il Kunstenfestivaldesarts nel 2012: “Una torre di undici piani, sede di una scuola alberghiera, racconta in prima persona l’evoluzione di Bruxelles vista dalla sua periferia. Questa francofona capitale delle Fiandre in cui si gioca tutta la partita nazionalista del Belgio, questo polmone economico carico di uffici notarili, commissari europei, in cui gli abitanti stabili sono per lo più disoccupati, questo micro-groviglio metropolitano che parla arabo e inglese e che ospita una vitalissima comunità di artisti internazionali, questa città a cosa assomiglia? Chi sono le persone che la attraversano? Come possono inventarsi un gesto comune?”.
Per la Rispoli lo spazio è un luogo praticato: “Nel 2009 abbiamo aperto il KFDA con un light show domestico creato dai cinquecento abitanti di un monumentale palazzo di case popolari del centro. È stato molto emozionante contemplare questa non-comunità di condomini usare le luci di casa per lanciare un messaggio sincrono alla città: ‘Vorrei tanto tornare a casa (e che questo volesse dire tornare dove sei tu)’”. Si tratta di instaurare una nuova prossemica tra i corpi? “Da sei anni abito a Molenbeek, uno dei quartieri del centro in cui la comunità del Rif marocchino conta quasi l’80 % di presenze. Qui si parla molto più un dialetto arabo che una delle altre 123 lingue bruxellesi. La mia integrazione non è scontata e si gioca sul modo di mostrarsi e guardare l’altro. Per conoscere i vicini ho aperto la porta del mio appartamento e ho invitato un attore marocchino a mettere in scena me stessa mentre guardo alla finestra i miei dirimpettai”.
L’artista Anna Raimondo guarda a Bruxelles come luogo delle appartenenze e punta sull’erranza del semantico. Nella sua ricerca, voce, linguaggio e deambulazione (tra performance, arte radiofonica e sonora) sono le piste attraverso le quali percorrere lo spazio urbano con pratiche d’ascolto, esperienze estetiche e politiche. I sui blitz urbani Gender Karoake ed Encouragements (filmati da Chiara Caterina) compongono percorsi relazionali per ri-localizzazioni sonore. “Per me Bruxelles”, dice la Raimondo, “è una città meridionale del Nord. Al di là degli stereotipi del grigiore e della pioggia, c’è un disordine organico, un ritmo lento. È sporca, con una vita doppia e non sempre legale. Bruxelles ha una bellezza nascosta e credo stia nella sua fragilità, nella sua ambigua accoglienza, nel suo problematico aspetto pluri-comunitario. Negli spazi comuni si sente parlare francese, darja, spagnolo, portoghese, italiano… Nel quartiere di St Gilles si parlano tutte queste lingue eppure le persone trovano un modo di comunicare con un francese o un neerlandese che si alimenta di parole inventate o in prestito da altre lingue. L’associazione Constant ha ideato il progetto ‘Parlez vous St Gillois?’ e invita artisti a lavorare nel quartiere. Ho risposto con il soundwalk ‘Play Babel’, che raccoglie l’esperienza linguistica degli abitanti, tenendo insieme parole intraducibili e improbabili in una zuppa di accenti che tracciano paesaggi sonori d’altrove”.
Daniel Blanga-Gubbay, ricercatore in filosofia politica dell’arte e performance, fondatore del think tank Aleppo, sottolinea la potenzialità inscritta nelle interferenze fisiche, mentali, culturali e politiche che questa dimensione urbana è in grado di tessere: “Bruxelles è una città disorganica. Già forse alla base la presenza di una doppia comunità – francofona e fiamminga – fa sì che essa abbia dovuto abdicare qualsiasi tentativo di rappresentazione omogenea di sé. Esiste una spontaneità urbana, di iniziative, che ha la possibilità di emergere senza doversi integrare in un disegno omogeneo. Ed è in questo che la produzione artistica sembra trovare uno dei suoi spazi di creazione ideale. È un giardino ancora incolto, e questo ti obbliga a stare all’erta. Anche la sua topografia è molto liquida. I quartieri considerati alti penetrano in zone più complesse, perdendo ogni margine. Bruxelles è piena di crepe, che sono unicamente spazi in cui è ancora possibile immaginare qualcosa”.
Qui le relazioni con le istituzioni (culturali) sembrano meno verticistiche che altrove, le strategie della ricerca artistica favoriscono dinamiche collettive. Ma qualcosa sta cambiando? Lo teme Sara Manente, co-ideatrice di CABRA vzw, performer e coreografa che fonda la propria ricerca sulle pratiche di collaborazione, valorizzando il malinteso come tattica di incontro. Un esempio? This place, progetto coreografico ideato con Marco Simoes su displacement e pratiche di telepatia, ora ramificato in azioni parallele (in Corea del Sud e del Nord con il designer Hwang Kim). “Non conosco quasi nessuno” afferma Sara Manente, “che sia arrivato a Bruxelles con l’intenzione di viverci, ma poi ci si resta perché si respira un’aria internazionale. In termini di produzione artistica esistono ancora modalità, dimensioni, risorse perché continui a essere vivace. Spero però che, data l’attuale situazione politica, non si cristallizzi in un sistema capace di salvaguardare pochi spazi e compagnie istituzionalizzate e superprotette o, peggio ancora, solo i progetti più visibili, vendibili, popolari, competitivi… penso ai recenti tagli!”. Vettori statici e mobili.
Piersandra Di Matteo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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