I giocattoli dell’homo ludens. Intervista con Mattia Casalegno
Un italiano da Eyebeam: Mattia Casalegno sarà artist-in-residence 2015 del centro newyorchese. Ha vinto citando Flusser: “La nuova umanità è fatta di uomini che giocano piuttosto che agire: la vita non è più una tragedia, è una performance. La nuova umanità ambisce a vivere esperienze di prima mano”.
Nella storia dell’uomo, gli artisti si sono sempre dimostrati sensibili spettri misuratori delle mutazioni globali. Mattia Casalegno (Napoli, 1981; vive a Los Angeles) prende spunto da antropologia, biologia, ecologia, neuroscienze e adopera tutte le forme espressive e tecnologiche possibili, con una predilezione per l’interattività e il digitale. Punto focale della sua indagine è la fisicità umana: il corpo in scena è quello dello spettatore, messo alla prova circa la propria sensorialità.
È fresco di selezione come artist-in-residence nel prestigioso Eyebeam d New York, uno dei maggiori centri al mondo dedicato allo sviluppo e alla diffusione dell’arte e delle nuove tecnologie, grazie alla quale trascorrerà cinque mesi nel centro di produzione di Sunset Park, a Brooklyn.
Lo scorso autunno sei stato in residenza al Budafabriek di Kortijk per sviluppare The GrassRoller, rientrato poi nella mostra Green Light District. Hai esposto il suo antesignano, The Open, al roBOt Festival di Bologna lo scorso autunno. Puoi descriverci il loro funzionamento, e quale evoluzione tecnica passa fra una e l’altra?
In collaborazione con una decina di studenti – designer e “cavie” – del Dipartimento di Design Industriale dell’Università di Ghent, The GrassRoller è stato sviluppato e costruito durante la mia permanenza al Budafabriek di Kortijk: una residenza finalizzata appunto alla realizzazione dell’opera e al suo inserimento in Green Light District, un progetto espositivo visionario – a metà tra un laboratorio scientifico, una fiera di paese e un distopico parco giochi – ideato e curato da Christophe de Jaeger, curatore internazionale interessato alle arti digitali e alle nuove tecnologie.
Dunque, cosa c’era in mostra?
Un bosco con tanto di ulivi secolari e luci alogene; galline vere, all’interno di una installazione-pollaio, capaci di depositare uova a forte contenuto di vitamine. In un’altra stanza, una macchina mixa-odori grande quanto un camion, e ancora dei prototipi di pesci modificati geneticamente in laboratorio, uno dei quali è poi stato rubato durante la serata inaugurale!
Cos’è The GrassRoller?
È un marchingegno grande come un letto matrimoniale, composto da un ripiano su cui stendersi e da un rullo rivestito di erba da giardino che ti passa sopra il corpo in una manciata di secondi. The Open comprende invece una serie di maschere equipaggiate con cuffie, zolle di terra e microfoni. La terra preme sul volto e forza a tenere gli occhi chiusi; si sente solo il respiro, “effettato” con un ritardo di tre secondi, che crea asincronia tra gesto e percezione sonora. Tra i due c’è una notevole differenza di scala ma c’è l’idea comune di creare, attivare una percezione affettiva duplice, contemporaneamente di spavento e attrazione.
Nei tuoi lavori interattivi lo spettatore è invitato a compiere gesti semplici, ma c’è sempre, come dicevi, qualche interferenza destabilizzante. Quanto può essere considerata complice, in questo effetto straniante, la tecnologia?
Ho preso spunto dalle riflessioni del filosofo Villem Flusser: in un mondo ultratecnologico – affollato di stampanti 3D e tecnologie digitali da salotto – preferisco creare “macchinari esperienziali”, elaborare sensazioni, generare affetti. In The Open, ad esempio, mi interessa innescare sensazioni conflittuali e complesse quanto il rapporto intimo che abbiamo con la natura.
La proposta che hai presentato all’istituto newyorchese per la tua residenza di produzione è incentrata sullo sviluppo di un progetto iniziato nel 2011, RBSC.01, lavoro presentato tra l’altro all’ultima edizione del NTAA – New Technological Arts Award, in Belgio. Questo lavoro rientra in un progetto più ampio che si delinea come un poema epico: il viaggio eroico non lineare dell’enzima RuBisCO verso una meta disfunzionale. Di quante e quali parti è costituito?
Il progetto è basato su una narrativa fittizia divisa in tre atti inspirata all’enzima RuBisCo, una proteina fondamentale per la fotosintesi, famosa per la sua inspiegabile lentezza. RBSC.01 è un dispositivo elettromeccanico a metà tra una ghigliottina e un altare, che produce un wafer o ostia sacramentale, e vi imprime un logo composto dai simboli dell’infinito, dell’ossigeno (O2) e dell’anidride carbonica (CO2). Al NTAA ho presentato alcuni video, disegni e reperti archeologici tardo-futuristici prodotti in relazione a quest’opera. Fanno parte del ciclo anche: un monologo, un flauto doppio che emette solo quattro note, una partitura musicale basata sulla transcodifica delle principali reazioni chimiche del ciclo della fotosintesi, un video di un musicista che prova a suonare tale flauto di fronte a una platea vuota. In questi ultimi anni ho ridisegnato e migliorato la macchina, e durante la residency ad Eyebeam mi concentrerò sulla implementazione dei componenti critici elettromeccanici – come attuatori, motori, sensori – e sul software.
In RBSC.01 letteralmente si ingerisce, si assimila, si introietta il prodotto di un apparato meccanico. Il mio obiettivo finale è la concettualizzazione di macchine che producano affetti anziché oggetti tangibili; la mia ricerca artistica segue un percorso di valorizzazione di un effetto performativo ed esperienziale – non più solo reattivo o interattivo – che scaturisce dai miei progetti, a disposizione del pubblico.
Nell’epopea dell’enzima più diffuso sulla Terra ti hanno affascinato le imperfezioni. Secondo la teoria evolutiva contemporanea, l’errore è elemento generativo: la natura procede per tentativi, a volte stupidi e inutili, e progressivamente svela il suo lato vestigiale, l’utilità dello scarto non funzionale. Anche nella mappatura del genoma umano, lo Human Genome Project, è stato rinvenuto un 95% di sequenze nucleotidiche prive di qualsiasi funzione genica, almeno a quanto si è capito finora. Resta da chiarire il significato biologico delle sequenze individuate; inoltre, solamente meno della metà dei geni analizzati corrisponde a funzioni riconoscibili in termini di proteine note. Mi sovviene il Laboratorio del Dubbio di Carsten Höller: stai cercando di attivare il materiale genetico di scarto e vedere se, come specie, siamo ancora in grado di evolvere verso derive imprevedibili? O semplicemente ti stai divertendo, senza nessuno scopo razionale?
L’errore è fondamentale per l’evoluzione. In fondo l’arte non ha l’obbligo di utilità, per questo mi appassiona così tanto progettare spazi di interazione e possibilità, immaginare soluzioni disfunzionali, non necessariamente finalizzate a uno scopo determinato. Ovviamente cerco anche di divertirmi il più possibile!
Federica Patti
www.eyebeam.org
www.mattiacasalegno.net
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