Inchiesta Art Brut. Intervista con Thomas Röske
Heidelberg, Anni Venti. Una clinica psichiatrica universitaria, uno storico dell’arte che era anche medico, una piccola raccolta di disegni, un libro in anticipo sui tempi. Così è nata la Collezione Prinzhorn. Che ha affascinato artisti come Paul Klee e Georg Baselitz, è sopravvissuta al Nazismo e oggi è un museo. Ce ne parla il direttore Thomas Röske.
La collezione Prinzhorn, che prende il nome dal medico e storico dell’arte che negli Anni Venti se ne occupò, è una delle più antiche raccolte di lavori realizzati all’interno di istituzioni psichiatriche. Ci racconta com’è nata?
La Collezione Prinzhorn non è la prima (quella del Museo Lombroso di Torino, per esempio, la precede) ma è la più grande tra quelle antiche ed è costituita da lavori provenienti dalle istituzioni psichiatriche sparse in tutti i territori di lingua tedesca. Lo storico dell’arte e medico Hans Prinzhorn (1886-1993) fu assunto dal nuovo direttore della clinica psichiatrica universitaria di Heidelberg, Karl Wilmanns, nel 1919, con il compito di ampliare una piccola collezione già esistente di lavori prodotti a Heidelberg. Prinzhorn inviò richieste a varie cliniche e manicomi tedeschi, e prima di lasciare l’ospedale di Heidelberg, nel 1919, raccolse oltre 5mila pezzi. Conservò tutto ciò che gli veniva inviato, senza escludere niente, da cui la ricchezza della collezione che poi avrebbe preso il suo nome.
Hans Prinzhorn è anche l’autore di un testo unico nel suo genere per l’epoca: L’attività plastica dei malati mentali, pubblicato nel 1922.
Il libro di Prinzhorn non è importante soltanto per le sue 350 pagine, in cui discute di argomenti ancora attuali sul tema. È importante perché fu una rivelazione in quest’ambito. Prima di Prinzhorn, di questi lavori esistevano soltanto rare riproduzioni in bianco e nero, all’interno di riviste psichiatriche, specialistiche. Fanno eccezione L’art chez les fous di Marcel Reja (1907) e Ein Geisteskranker als Künstler di Walter Morgenthaler (1921) [monografia sull’opera di Adolf Wölfli, N.d.R.], ma anche in questi libri le immagini erano poche e in bianco e nero. Si può dire che fu Prinzhorn a dare visibilità a questi lavori, includendo nel libro 170 riproduzioni di opere della collezione di Heidelberg, alcune delle quali a colori.
Un altro aspetto rivoluzionario è che rifiutò di attribuire a forma e contenuto qualsiasi tipo di valore diagnostico. Di conseguenza, il libro ebbe più successo tra gli artisti e gli appassionati di arte che tra gli psichiatri. Molti artisti ne furono ispirati: i Surrealisti, ma anche Kirchner, Klee, Schlemmer, Lindner, Rainer, Baselitz, e molti altri fino ad oggi. La storia dell’arte del XX secolo sarebbe stata diversa senza il libro di Prinzhorn.
In epoca nazista queste opere, come tutte quelle delle avanguardie e non allineate all’arte di regime, furono a rischio di epurazione. Com’è sopravvissuta la Collezione Prinzhorn?
Credo che la collezione si sia salvata per l’uso che ne fu fatto. Il direttore della clinica di Heidelberg successivo a Wilmanns, Carl Schneider, era una figura di spicco nel cosiddetto “programma per l’eutanasia” dell’epoca nazista [il progetto Aktion T4, per eliminare le persone con disabilità fisiche e patologie psichiatriche, N.d.R.], e nel 1938 ebbe l’idea di prestare alcuni lavori della collezione alla famigerata mostra itinerante Entartete Kunst (1937-1941). Alcune opere della Collezione sono anche illustrate nella guida della mostra.
In che anno la collezione è diventata un museo?
Soltanto nel 2001, a ottant’anni di distanza dal giorno in cui Prinzhorn lasciò la clinica. Oggi si trova nell’edificio in cui si svolgevano le lezioni di neurologia, costruito nel 1890. Allestiamo tre o quattro mostre a tema l’anno, nella maggior parte dei casi solo con i lavori della collezione. Tra una mostra e l’altra dobbiamo chiudere per circa un mese per organizzare il cambio di allestimento. Non c’è spazio a sufficienza per una mostra permanente.
Quanti pezzi contiene oggi la collezione? Come avviene il processo di selezione dei nuovi lavori?
La collezione ha ricominciato a crescere nel 1980, dopo la prima grande mostra itinerante in Germania e in Svizzera. Oggi è composta da oltre 20mila pezzi, realizzati nella maggior parte dei casi da persone con “esperienza psichiatrica” (questo è il termine politicamente corretto in Germania). Le opere in prevalenza hanno una datazione compresa tra il 1890 e 1930, oppure successiva al 1980. In genere le acquisizioni avvengono sotto forma di donazione. Se sono state prodotte in un periodo che non è ben rappresentato all’interno della collezione, non ho la minima esitazione ad accoglierle. Diversamente cerco di decidere in base alla qualità del lavoro. Anche se il criterio fondamentale è quello di includere lavori rappresentativi di un’esperienza psichica fuori dall’ordinario, oppure rappresentativi della reazione della società nei confronti di tale esperienza. Mi piacerebbe molto poter fare come Prinzhorn, e cioè accettare qualsiasi cosa venga offerta, ma purtroppo ci sono dei limiti di spazio.
“Art Brut”, “Outsider Art”, “arte”… Qual è il termine che ritiene più corretto o che usa abitualmente?
Difficilmente uso uno di questi termini. Se proprio è necessario, parlo di Outsider Art, che è onnicomprensivo. Però la Collezione Prinzhorn non è un museo di Outsider Art: è un museo dedicato all’arte e all’esperienza psichiatrica. Molte cose si possono contestare alla diffusione del termine “Outsider Art”. Ma è sostanzialmente un termine di mercato. Fu coniato quando si creò un mercato per l’Art Brut, e il libro di Cardinal da cui ebbe origine, nel 1972, è ovviamente una direttiva per i collezionisti. Il mercato ha bisogno di queste etichette per suscitare l’interesse dei collezionisti. È grazie al termine Outsider Art che questi lavori sono visibili all’interno del mercato.
Penso che la popolarità dell’Outsider Art nell’attuale scena artistica abbia diversi fini. Quello che interessa a me è includere questi lavori, e le persone che li hanno prodotti, nella società. E non si tratta di compassione. Oggi, nell’epoca aggressiva del tardo capitalismo, un numero crescente di persone è spinto ai margini della società ed è costretto a vivere in condizioni precarie. Molti non ne possono più di ragionamenti sorretti unicamente da logiche di tipo economico. C’è, piuttosto, un’apertura nei confronti di ciò che va al di là del calcolo, da cui, anche, l’interesse per l’arte prodotta da chi ha avuto un’esperienza della realtà e della società del tutto diversa dalla propria.
Progetti in cantiere?
Abbiamo molte idee per le future mostre a tema. Ma la nostra principale urgenza è trovare i mezzi per ampliare il museo, perché la sua popolarità è molto cresciuta nell’arco di questi quattordici anni. Non ci serve soltanto spazio espositivo; ci servono teche per esporre regolarmente, ai visitatori interessati, le grafiche che non sono esposte in mostra, una biblioteca e un bookshop più grandi, una stanza per lezioni e seminari. Inoltre vorremmo aprire un atelier protetto per gli artisti, che attualmente manca a Heidelberg. Ci stiamo anche movendo per avere una vetrina espositiva a Berlino, in cui proporre regolarmente delle mostre. Ci saranno molte novità, in futuro, alla Collezione Prinzhorn.
Sara Boggio
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