Inpratica. L’esperienza culturale di Milano (II)
Seconda tappa di avvicinamento a Expo per la rubrica Inpratica. Che dedica una serie di articoli – ogni lunedì – all’“esperienza culturale di Milano”. Qui si parla di Anni Trenta e della prima metà degli Anni Quaranta. Fino al primo libro sulla Resistenza, che nasce proprio nel capoluogo lombardo…
Dopo Stramilano (1929) di Corrado D’Errico (parallelo agli esperimenti di Berlino-Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann e de L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov), nel 1932 Mario Camerini gira Gli uomini, che mascalzoni…, con Vittorio De Sica come protagonista: la commedia sentimentale, che viene presentata alla prima Mostra del Cinema di Venezia, racconta la storia dello chauffeur Bruno e della commessa di profumeria Mariuccia nel contesto industrioso e prospero della città.
Mario Sironi elabora nel giro di questi anni una propria, personale sociologia dell’arte: nel 1933 pubblica il Manifesto della pittura murale, con Massimo Campigli, Carlo Carrà e Achille Funi (“La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori”) e dipinge i murali alla V Triennale di Milano: Le opere e i giorni, Il lavoro. In queste opere, “la disposizione plastica tende a condensare (incatenare, dirà Sironi) l’attenzione, e il risultato è una intensità cupa e tesa che si cala in un tempo astorico, in un fluido culturale, in cui emergono elementi medievali e riferimenti primitivistici (…) la violenta energia che s’avventa in queste opere (non diversamente da quanto accade in tele e tempere precedenti) è il sintomo di un vitalismo che non trova il proprio corrispettivo figurativo, la propria sublimazione e si arrovella moralisticamente più sui temi negativi, sugli elementi che dovrebbero essere socialmente ammonitori, che su un programma positivo di simboli e figure” (Paolo Fossati, Pittura e scultura fra le due guerre, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, vol. III. Il Novecento, Einaudi 1982, p. 239).
La Milano degli Anni Trenta è consegnata alle pagine de Le meraviglie d’Italia (1939) e de L’Adalgisa (1944) di Carlo Emilio Gadda, in cui trovano spazio le descrizioni minuziose e strepitose di tutti gli aspetti, le figure e i luoghi della modernità cittadina, dalla sua “pianta” e dal “decoro dei palazzi” alla Borsa, dal Cimitero al Castello, al Mercato di frutta e verdura: “Il mercato è interamente recinto: occupa 74.000 metri quadri: metà di quest’area è coperta: gli edifici di magazzino e le tettoie di vendita dei grossisti fiancheggiano la via perimetrale, a ferro di cavallo, nella sua parte più curva. Sorte nell’età del ferro, (1910-1911), tettoie e pensiline di ferro fanno un panorama di stazione ferroviaria medieuropea. Trasferendo altrove il suo mercato delle frutta e verdure, la civica amministrazione si troverà a poter disporre d’un tesoruccio impensato: cioè qualche centinaio di tonnellate del prezioso metallo. A una lira il chilo… Mancano, data l’età, impianti frigoriferi centralizzati, che insigniscono invece di lor presenza il macello nuovo. Singoli magazzini di grossisti ne sono tuttavia provveduti. Il fortore degli erbaggi in corso di transustanziazione non è un solletico molto piacevole dentro le canne del naso. […] Cedri ed arance e così le opulenze della cornucopia campana o dell’àpula e tutte le primizie maturata dalla terra e dal cielo di Sicilia a febbraio, col sole, qua, intirizzito in Acquario, nella stagione quando l’Alpe è un cristallo e il Po dilava magramente per mezzo a un crostone di neve, questi doni di una natura più azzurra e d’un vigore che non soffre la tùnica arrivano per treni e vagoni lungo i due litorali, trainati di piaggia in piaggia da locomotori caparbi, su, su, di maremma in maremma, o in vista dell’agro geometrizzato dalla bonifica”.
Gli Anni Quaranta si inaugurano con la pubblicazione de La scoperta di Milano (1941), il delizioso esordio di Giovannino Guareschi: “Così, a un tratto ti trovi al cospetto del Duomo e ti stupisci che sia senza il regolamentare panettone davanti, come nei cartelli pubblicitari. E davvero, per chi non è nato a Milano, il Duomo, visto senza panettone davanti e senza diciture in cima, ci fa un po’ la figura impacciata del vecchio militare che si mette in borghese. In seguito, a poco a poco, diventa naturalmente disinvolto. Ma le prime volte è così”.
Dopo la tragedia della guerra, saranno molti e preziosi gli oggetti culturali che raccontano, in diretta, Milano in ginocchio (Corrado Stajano: “Dolorante, semidistrutta dalle bombe. Per interi isolati si cammina ancora sulle macerie. Ma la ricostruzione rivela lo spirito vitale della città, rivela anche il carattere bottegaio-speculatore che alberga nelle viscere della comunità”). In particolare, Ascolto il tuo cuore, città (1944) di Alberto Savinio è una complessa e articolata mappatura narrativa del volto materiale e immateriale della città, nel momento in cui quello stesso volto viene sfigurato e trasformato per sempre, drammaticamente, dagli eventi (“Nell’estate del 1943 questo libro era per essere licenziato alle stampe, quando i bombardamenti di agosto mutarono la faccia di Milano”): il resoconto diventa dunque la commemorazione di un mondo che evapora, che scompare nel passato, e la memoria ricostruisce nell’immaginazione i luoghi e le figure.
Milano è anche il fulcro del primo libro sulla Resistenza: Uomini e no di Elio Vittorini, pubblicato nel giugno 1945 ad appena due mesi dalla liberazione e ambientato nel 1944, è tutto proiettato nel fuoco della battaglia, declinato però in forma non didascalica ma umanissima. Vale la pena di riportare un intero passaggio, posto al centro del romanzo, perché esso rappresenta il cardine e il punto di svolta dell’intera narrazione, e sintetizza molto bene il modo in cui Vittorini riesce a calare il lettore nella realtà della Resistenza milanese: “Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini; e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci; qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, cappotti: panni usati. Che cos’era? Guardò, pur camminando, e più da vicino; e vide, fuori da qualcuno di quei mucchi, scarpe. Scarpe anche? Le vide come ai piedi dell’uomo, quando un uomo è steso in terra. C’era gente in quei piccoli mucchi? C’erano uomini? Guardò, quasi spaventata, dietro a sé; nelle facce della folla”.
La scena, come tutto il romanzo, è costruita tutta a “scatti” (“rapidi scatti sulla mappa concentrica della città”, dirà Italo Calvino), che sembrano davvero cinematografici: movimenti di macchina che precisano e specificano, passo dopo passo, i particolari agghiaccianti. È un piano-sequenza in soggettiva: attraverso lo sguardo di Berta (che non è possibile sganciare da percorso fisico negli spazi urbani), condividiamo con lei la sua stessa scoperta, che segnerà una cesura nella sua consapevolezza, e nella direzione dell’intero racconto. Il lettore-spettatore non solo è con Berta, ma è Berta: mentre guarda, e non capisce che cosa siano quei “mucchietti di cenci”; mentre trova con gli occhi “gente in quei piccoli mucchi”; mentre vorrebbe disperatamente una mediazione, un filtro tra se stessa e l’orrore, delegare la responsabilità (“saperlo da qualcuno della folla”), e invece sceglie di vedere “da sé” la realtà della morte, in tutta la sua oscenità. E noi la vediamo con lei, in maniera molto più brutale ed efficace che se la scena ci fosse stata presentata sin dall’inizio nella sua immediatezza, per ciò che era ma anche come qualcosa davanti a cui si può rimanere indifferenti, e tirare dritto. Questa scoperta graduale, il non voler credere a ciò che è davanti agli occhi, fa sì che noi siamo in largo Augusto a Milano nel 1944, e anche a noi si impone una scelta davanti alla quale non possiamo tirarci indietro, far finta di niente.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati