Inpratica. L’esperienza culturale di Milano (III)
A partire dagli Anni Cinquanta, fortissime trasformazioni economiche e sociali sommuovono il Paese come onde sismiche: il fenomeno più evidente è quello delle migrazioni, sia esterne sia interne. Gli spostamenti della popolazione modificano in profondità il volto dell’Italia, i comportamenti, le abitudini di vita, i costumi. E a Milano…
Fra 1958 e 1963, circa un milione di italiani si trasferisce dalle campagne del Sud alle periferie urbane del Nord industriale: “La fascia industriale milanese, la cosa che avendo tanti nomi, Cinisello-Rho-Cologno-Sesto, eccetera, è poi la stessa cosa: non città ma neoplasia di città, le case moltiplicatesi come cellule impazzite, sottopassaggi, rotaie, case, strade cieche, case, un po’ di campagna ‘né verde né gialla’, altre case, fumo, miasmi” (Giorgio Bocca, La fabbrica dei nuovi italiani, “Il Giorno”, 3 settembre 1963).
Scrive Corrado Stajano ne La città degli untori (2009): “Gli emigranti si insediano nelle periferie. Vengono da bassi malsani e da disumani ‘catoi’ e i nuovi quartieri rappresentano una conquista sociale. Le ‘coree’, le città alveari, le città dormitorio, le città caserma, prive di servizi sociali, di verde, di campi da gioco per i bambini, accendono, nonostante tutto, un lume di speranza in quei profughi dalla grama esistenza, quasi un pezzettino di paradiso. L’area metropolitana, nell’assenza di piani, di regole, nel disprezzo di una cultura urbanistica aggiornata, diventa un’informe ma omogenea pianura cementizia che sembra ricoperta di scatole di scarpe capovolte, appiccicate l’una all’altra…”.
La ragazza Carla di Elio Pagliarani (scritto tra 1954 e 1957, e pubblicato in edizione definitiva nel 1960 sul “Menabò”) è un documento prezioso di quella stagione e dell’inquietudine nuova che aleggia in una città in tumultuosa espansione, inquietudine condensata dalla protagonista del titolo: “All’ombra del Duomo, di un fianco del Duomo / i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche / mobili sulle facciate / del vecchio casermone d’angolo / fra l’infelice corso Vittorio Emanuele e Camposanto, / Santa Radegonda, Odeon bar cinema e teatro / un casermone sinistrato e cadente che sarà la Rinascente / cento targhe d’ottone come quella / TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY / le nove di mattina al 3 febbraio”.
I racconti de Il Ponte della Ghisolfa (1958) di Giovanni Testori, che ispireranno nel 1960 le vicende di Rocco e i suoi fratelli, rendono conto con il loro realismo espressivo parallelo rispetto a quello pasoliniano di questo mondo in trasformazione e di questa geografia urbana che delimita e materializza precisi confini sociali ed economici: “Il colpo di cuore, quando, il lunedì successivo, mentre lui cominciava il servizio, s’era fatta dare i documenti per trascriverli! Li aveva portati in casa: Ballabio Ivo, di e di, nato a Giussano il, abitante in Milano, via Zoagli… […] Certamente il nuovo barista aveva bisogno d’aiuto. Su questo era sicura: e a parte la via, a parte la casa, una di quelle grandi caserme della periferia, lei che in fondo, prescindendo da via Cerva, anche bambina una casetta di paese l’aveva sempre avuta, con l’orto sul fianco, i fiori che si arrampicavano e quell’aria intorno per cui le stagioni entravano e uscivano dalla finestra… Una pena, una sorta di dolore sapendo che lui invece doveva viver là, dove si trovava di tutto, gente come si deve e foffa, ladri, baresi, ruffiani, abruzzesi, napoli e veneziani” (La padrona).
Oppure, l’incipit del racconto che dà il titolo alla raccolta: “Quando nascondendosi in se stessa scese dal tram e, il tempo d’attraversar il viale, si trovò davanti la rampa del ponte che i lampioni illuminavano nella sua curva ampia e solenne ebbe un momento di tremore: benché lo conoscesse, quella sera la ragione per cui vi si recava glielo fece parer smisurato. Non sapeva dove poi il Raffaele l’avrebbe condotta: se si sarebbero fermati in uno degli archi che formavan il sottopassaggio o se da lì sarebbero passati altrove; le aveva detto soltanto d’aspettarla al fondo della strada piccola e non asfaltata che si staccava sulla destra, al culmine del cavalcavia. Il lieve ritardo di cui poté rendersi certa guardando l’orologio posto poco più in là della fermata le ridiede un po’ di sicurezza: il Raffaele doveva aspettarla giù, immobile o gironzolando avanti e indietro, con quella sua aria indolente, le mani in tasca, la sigaretta accesa. Aspettò che un rimorchio percorresse rombando la Mac Mahon poi da un salvagente passò all’altro e quando infine si trovò sul punto d’attraversar la carrozzata di destra del viale, esitò come se la sicurezza le fosse svanita di nuovo. Allora dalla piena luce in cui era si ritirò nell’ombra, s’appoggiò a una pianta e cominciò a guardare con l’intensità di chi insegue la propria salvezza quanti da quel punto prendevano a salir l’erta del ponte”.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati