Il cinema di inchiesta e di denuncia, nato sulla scia di opere come Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, riesce a fondere negli Anni Settanta l’eredità fondamentale del neorealismo, la critica sociale con la vocazione spettacolare: esemplare, in questo senso, un film come Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio, in cui comincia a emergere potentemente quella qualità livida della metropoli italiana che caratterizzerà gran parte della sua migliore rappresentazione culturale – sullo schermo e non solo – lungo tutto il decennio. O come La mala ordina (1972) di Fernando Di Leo (secondo capitolo della ‘trilogia del milieu’, dopo Milano calibro 9 e prima de Il boss), in cui un monumentale Mario Adorf interpreta Luca Canali, criminale da quattro soldi che nella sua vendetta riesce a comprimere e far esplodere con la sua potenza visiva “larger than life” gli angusti spazi di una città oggi scomparsa – uno su tutti: il Naviglio – all’interno dell’inquadratura.
D’altra parte, il “poliziottesco” – per molto tempo considerato in toto rozzo, semplificatorio, regressivo – è un genere intimamente e strutturalmente connesso al racconto visivo del contesto urbano e alla proiezione della sua realtà, criminale ma anche e soprattutto sociale (e, a volte, politica): tra i casi più riusciti in questo senso, Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973) di Sergio Martino, Milano odia: la polizia non può sparare (1974) di Umberto Lenzi e La polizia ha le mani legate (1975) di Luciano Ercoli. L’immagine di Milano assume una consistenza oscura, notturna, tetra: è un ambiente ostile alla presenza dei suoi abitanti e dello spettatore, inospitale, che trasmette un senso continuo e frustrante di minaccia. Una volta conclusa l’epopea del boom, ciò che rimane è un luogo che ha dimenticato in ogni suo quartiere la propria natura di città-comunità, e in cui gli individui sono costretti a rinchiudersi tra le mura di casa (come racconteranno splendidamente, di lì a pochi anni, Luciano Salce e Paolo Villaggio nell’ingiustamente dimenticato Il… Belpaese, 1977).
Il ritratto di Milano sullo schermo si concentra così su spazi marginali, periferici, liminali (spesso avvolti dalla nebbia e dal fumo) e sugli oggetti di consumo e di arredo, pop e kitsch, che saturano gli appartamenti angusti di questi anni, come avviene ne La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri e in Romanzo popolare (1974) di Mario Monicelli: il paesaggio sociale e culturale urbano è fatto dunque di queste accumulazioni plastificate, di questi prodotti di massa a poco prezzo che raccontano il sogno di un benessere irraggiungibile e che sono al tempo stesso già la simulazione atroce di quel benessere – più che di spazi aperti e di edifici.
L’immagine della città durante gli “anni di piombo” si fa sempre più livida, spettrale, carica di una violenza strisciante che esplode a tratti, di un’isteria collettiva, come nei versi di Vivere a Milano (1975) di Nanni Balestrini: “Se c’è uno psichiatra per Milano si f / questa è una storia di fantasmi son / approfittando del fatto che un impi / accia avanti il caso è questo ci son / o fantasmi aggressivi e violenti che / egato stava entrando nel portone r / o due città una lavora o perde il la / sfondano a sassate le vetrine e usa / imasto fino ad allora chiuso il grup / voro subisce il salasso dell’inflazio / no la spranga sulle macchine più s / po si è precipitato urlando dentro il / ne non trova casa e vede sui giorna”.
E come nelle scene, nelle inquadrature e nelle ambientazioni gelide di San Babila ore 20: un delitto inutile (1976). In questo serrato capolavoro, Carlo Lizzani riassume – ispirandosi a un fatto realmente accaduto – i tratti di una feroce divisione ideologica che si riflette concretamente nella lacerazione schizofrenica degli spazi urbani. Il film racconta infatti fedelmente come le zone della metropoli siano attraversate da vere e proprie “faglie” politiche: i giovani di ogni schieramento le occupano ormai militarmente, impedendo fisicamente ai “nemici” di attraversarle. (Memorabile, per esempio, è la scena in cui il montaggio alterna il passo dell’oca dei sanbabilini con le permanenze architettoniche del Ventennio nel centro cittadino.) L’elemento che indica e identifica è il codice dell’abbigliamento, l’uniforme che permette di riconoscere gli altri: chi sbaglia percorso paga, a volte con la vita stessa. È la situazione comune alle città italiane lungo gli anni Settanta, la cui esperienza fisica si è trasformata in violenza, pericolo, trauma: su questo trauma interverranno presto gli Anni Ottanta, apparentemente leggeri e stilosi con il loro glamour e la loro superficialità (in realtà, almeno altrettanto pesanti e magmatici degli anni Settanta dal punto di vista dell’immaginario culturale e delle sue trasformazioni). Per quanto riguarda Milano, interverranno con una sorta di “bonifica” mentale a cui sono sottoposte proprio le zone morte del decennio precedente: in questo modo, la San Babila dei neo-fascisti, la San Babila dei “sanbabilini”, diventerà la San Babila dei paninari.
Christian Caliandro
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