Padiglione Metropoli. Scrive Vincenzo Trione
Cosa aspettarsi dal Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia, curato da Vincenzo Trione? Chi freme e non riesce proprio ad aspettare l’inaugurazione – o almeno la conferenza stampa prevista domani 26 marzo – può cercare qualche indizio nella produzione editoriale dello stesso Trione.
Le Biennali più memorabili? Sono, in grandissima parte, quelle dirette da curatori “puri”. Senza troppe sovrastrutture, senza troppi incarichi accademici, senza troppe pubblicazioni all’attivo (il termine pubblicazioni va inteso in senso “scientifico”). La ragione? In fondo è semplice: impaginano mostre che non sono illustrazioni più o meno – spesso meno – riuscite di libri pubblicati, immaginati, in corso di stampa.
Tutto questo cosa c’entra con Vincenzo Trione? C’entra, almeno in parte. Certo, lui non dirigerà la Biennale, compito affidato a Okwui Enwezor; curerà “soltanto” il Padiglione Italia. Che però, essendo il Paese ospite, ha una sua rilevanza nell’economia della rassegna lagunare. Ma il ragionamento iniziale, fatte le debite proporzioni, vale ugualmente. E quindi come la mettiamo? Trione in effetti curatore di professione non è, e si avvicina sicuramente di più al profilo dell’accademico. Ma ci sono alcuni ma. E qui ci basiamo su quanto Trione ha pubblicato, visto che ci troviamo in una rubrica che parla di editoria.
Punto primo. Di mostre Trione ne ha curate poche, addirittura pochissime se si guarda alla produttività a cottimo di parecchi rappresentanti della sua generazione (è nato a Napoli nel 1972). Ma ha lasciato segni chiari. Due esempi: Post-classici, rassegna al Foro Romano e al Palatino che indagava, nel 2013, “la ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana”, chiamando a raccolta diciassette artisti che andavano da Jannis Kounellis ad Alis/Filliol passando per Claudio Parmiggiani e Vanessa Beecroft. Concept preciso, location perfetta, scelta trasversale e ragionata dei partecipanti. Niente catalogo, bensì un libro a più voci per indagare il nesso tra classico e contemporaneo, spaziando dall’arte (con saggio dello stesso Trione) al cinema (Gianni Canova), dalla letteratura (Alessandro Piperno) alla mitologia (Maurizio Bettini). Secondo esempio: Monocromos, mostra al Reina Sofía, curata nel 2004 da Barbara Rose. Qui Trione lavora principalmente sul libro-catalogo, e da un certo punto di vista ri-legittima la mostra stessa, la attraversa e la riscrive, con un lungo saggio e un’antologia di testi d’artista, da Kazimir Malevic a Magdalena Abakanowicz.
Punto secondo. Che poi già emerge dal precedente: Trione è un abilissimo collettore di idee e coordinatore di cervelli. Crea reti temporanee, fa il direttore d’orchestra – ma non teme di “sporcarsi le mani” o di condividere la bacchetta – e miscela nomi noti a emergenti. Così per Post-classici (gli artisti, i saggisti), e così per due libri recenti pubblicati da Johan and Levi: Il cinema degli architetti e Arte in TV. Il primo (pagg. 272, € 22) ha il consueto saggio d’apertura di Trione, cui seguono 53 schede dedicate ad altrettanti architetti (di professione se non di titolo) e redatte da 24 contributor, dall’associato al Politecnico di Milano (Imma Forino, classe 1955) alla “semplice” laureata (Caterina Verardi, classe 1988). E così si raccontano una cinquantina di storie di architetti con la cinepresa in mano, da Gianni Pattena a Superstudio, da Aldo Cibic a Carlo Mollino. Il secondo libro (pagg. 182, € 16) è anch’esso collaborativo: al timone c’è, insieme a Trione, Aldo Grasso, con saggi raccolti dalle penne di Martina Corgnati e Rachele Ferrario, per citarne un paio. E qui si narra degli intrecci fra arte e televisione, ma soprattutto di “forme di divulgazione”.
Punto terzo. La divulgazione, appunto. Che è quella cosa i cui nemici sono da un lato l’accademismo e dall’altro la banalizzazione. E quando Trione scrive che “bisogna inventare una sintassi televisiva capace di raccontare la cultura in maniera innovativa”, è una frase-manifesto che si può adattare – fatte salve le specificità di media e contesti – a un discorso generale, consapevoli che “ogni divulgazione è innanzitutto una forma di traduzione imperfetta. E, insieme, è un modo per rinviare ad altro”. Un discorso che si applica anche e forse soprattutto in ambito educativo, dove la didattica non è didascalicità, che la si faccia in un’aula universitaria o – perché no? – dentro il quadro di una mostra. E anche in questo caso, il docente Trione, il giornalista Trione, potrebbe avere molto da dire.
Punto quarto. Le cose migliori, almeno intellettualmente parlando, scaturiscono dalle ossessioni. È una regola che chiunque può verificare in ogni campo dello scibile, dall’astrofisica alla poesia, dalla robotica alla filosofia del diritto. Prima o poi, puntualmente o per una vita intera, si materializzano dei precipitati in forma di libro, invenzione, oggetto, idea. Questo non significa che si debba leggere l’opera di un dato autore con forma mentis teleologica, come se tutto fosse fatto in vista di quel precipitato. Perché talora è vero, ma ancor più spesso le dinamiche della chimica organica sono ben più complesse. Le ossessioni di Trione hanno tanti nomi (de Chirico e Baudelaire, Benjamin e Warburg…) ma il precipitato – il primo e l’ultimo in ordine di tempo, dopo dieci anni di lavoro – si chiama metropoli, si presenta come un libro edito da Bompiani (pagg. 832, € 58) e reca il titolo di Effetto città.
Punto quinto. Le ossessioni sono bulimiche. E non si tratta qui di fare psicologia dell’autore: sono bulimiche nel senso che illuminano ogni cosa da un preciso punto di vista, il loro. Gestire questo accecamento e accanimento, questa focalizzazione dello sguardo, rende il precipitato un manufatto fruibile anche da altri, e non una mania solipsistica. Insomma, gestendo il “problema” si può scrivere un ottimo libro, nella fattispecie. Con le sue ossessive forzature, per definizione, ma senza che ledano la validità intellettuale del progetto. Esempio: trascinare de Chirico dentro un discorso sulla postmodernità urbana è rischioso, ma lo si può fare, e bene, ragionando sulla fascinazione del Pictor Optimus per New York, e facendola dialogare con quella di Depero. E così fa Trione, e lo fa mettendo in dialogo – fra sussurri e grida – centinaia di artisti, sociologi, architetti, cineasti, filosofi, letterati… Dando vita a un libro che, come è stato scritto assai correttamente, assomiglia moltissimo al proprio oggetto: un libro-città, con i suoi viali alberati e i quartieri di stradine tortuose, i grattacieli e i parchi, le bocciofile e gli incidenti stradali, le parole – ops, le persone – e le cose. Con un misurato e ricorsivo omaggio al compianto Gabriele Basilico.
Ecco, se Vincenzo Trione farà un Padiglione Italia mettendoci dentro tutto questo, sarà un memorabile Padiglione Italia. Con Giorgio de Chirico o meno alle pareti.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati