Biennale di Venezia. Il padiglione del Messico raccontato da Karla Jasso
Tania Candiani e Luis Felipe Ortega allestiranno, all’Arsenale, nella Sala d'Armi, una doppia personale dal titolo “Possessing Nature”. La curatrice Karla Jasso racconta con dovizia di particolari la ricerca cartografica e ambientale attraverso la quale si analizzerà il dilavamento del potere.
A partire dal titolo della doppia personale che lo rappresenterà, quali temi attraverseranno il Padiglione del Messico?
Ho iniziato a lavorare a partire da una linea molto particolare che è la storia della scienza, una storia che si interessa alla memoria, alle giustapposizioni e ai tempi profondi. Partendo da lì, come tutti i ricercatori, preferisco un determinato tipo di oggetti di potere e condizioni che potremmo chiamare ambientali. Quindi, il gioco tra la cartografia in quanto tecnologia di potere e due città che fin dalla loro origine sono contraddistinte da una condizione anfibia. Parlo della cartografia in un senso totalmente rinascimentale e dell’anfibio in quanto mito dell’origine. Prendendo in considerazione questi temi, si cominciano a osservare le forze tra di loro, a differenziare tra ciò che è apparentemente uguale e ciò che è autenticamente diverso: i destini e le condizioni politico-economiche, affinché ogni storia possa tradursi in un destino diverso.
Da qui è nato il progetto, tra l’uguale e il diverso, tra il mare e la laguna, tra l’impero navale e la sovranità coloniale. Ogni forma di governo – ieri, oggi, domani – esercita un potere assolutamente particolare e, dal mio punto di vista, uno dei più violenti: plasmare, appropriarsi, possedere la vita. Quando parliamo di Possessing Nature segnaliamo la nascita delle prime collezioni d’arte (Wunderkammer) al mercante che emerge come figura di scambio dell’esotico nel primo momento globale della modernità precoce. Parliamo inoltre di contesti che hanno utilizzato l’appropriazione e il possesso in quanto giustizia. È possibile possedere il mare, è possibile possedere la terra, ma è anche possibile possedere e decidere il destino di un intero territorio, oppure le condizioni di vita di un popolo.
Le installazioni di Tania Candiani e Luis Felipe Ortega come interagiranno con il pubblico?
Tania Candiani e Luis Felipe Ortega sono due artisti la cui dimensione di riflessione estetica è molto potente. È la prima volta che lavorano insieme.
Nella retorica delle biennali e dei suoi padiglioni persiste l’idea che un artista e la sua opera possano essere letti a partire dai codici che definiscono la presunta identità nazionale. Bene, lo stato attuale delle cose, dove la forza economica inizia a far scomparire gli stati, ci dirige verso due possibilità: o si continua a stabilire nuovamente l’identità nazionale oppure occorre ristabilire l’idea di nazione e identità in un altro modo. Non sto parlando di politiche né di letture post-coloniali, ma di una realtà palpabile, piena di tensioni.
Come pensare, in uno sguardo d’insieme, alla selezione sdoppiata del Padiglione del Messico?
Mi piace pensare al Padiglione come uno spazio che, verso l’esterno, è contrassegnato dal nome del Paese, ma che allo stesso tempo, nel proprio spazio interno, presenta innanzitutto la possibilità di lasciare un nome e offrire tutta la capacità estetica e politica a favore della problematica che si desidera enunciare. In breve, e prendendo una delle frasi centrali della proposta di Okwui, è prendere l’apparenza delle cose per rivelare con maggiore intensità lo stato delle cose.
Il segno che lascia un artista o un altro, in questo modello, mette in discussione i generi, il tipo di arte eseguito in modo individuale. Tania Candiani è un’artista che ha esplorato discorsi di genere e diverse forme di narrativa; è una scrittrice, traboccante di vitalità, di avventure e sguardi a tutto campo, la sua ossessione per le macchine da scrivere, le forme e il suono della lingua, la scrittura codificata, il suo lavoro riguardo ai graffiti come espressione artistica sono senza precedenti,. La sua opera è come una superficie piena di crepe e profondità.
Luis Felipe Ortega è un artista-filosofo?
È un filosofo di professione, ed è anche un artista. Il suo sguardo controlla gli orizzonti, i luoghi, le architetture. Ha un modo unico di leggere i viaggi, le città. A partire dagli Anni Ottanta, la sua opera ha dato molto all’arte contemporanea in Messico. Per me, è come la figura di Euclide e i suoi Elementi. Il suo lavoro nell’installazione sfrutta la complessità della geometria per tendere gli spazi, come posizionare una roccia su una lastra di cristallo sospesa in aria per mezzo di un kit di pendoli. Tendendo lo spazio in questo modo, vengono tesi lo sguardo e il corpo di chi osserva.
È poeta in quanto cita la poesia nelle sue opere; è formale poiché l’eleganza euclidea della sua opera non può essere osservata se non attraverso il codice poetico.
Quale legame visivo, sintattico ed espressivo unisce i loro lavori? Qual è il risultato formale?
Le loro metodologie sono radicalmente opposte. L’installazione di carattere monumentale presente nel Padiglione del Messico è semplicemente un’opera che li riunisce e, per mezzo della sua potenza, ci mostra l’intensità con cui ciascuno affronta lo stesso problema. È un sistema/scultura, una scultura/canale, un sistema idraulico che in un determinato momento utilizza l’acqua a livello spettrale offrendoci viste di alcuni luoghi della modernità fallita sia a Città del Messico che a Venezia.
Non è un’installazione semplice. Al contrario, la sua estetica è costantemente attraversata da un ermetismo puro, un ermetismo che, in un momento, si rovescia come attivazione di memoria politica che denuncia questo: il possesso, l’autoritarismo, il potere che in modo arrogante decide una volta dopo l’altra (temporalità ciclica) di avere un pezzo di città nel proprio salottino.
Qual è la tua definizione di possesso?
Qui la lingua ci tradisce. La mia idea di possesso, dopo aver lavorato per tanti mesi a questo progetto con la ricerca storica e scientifica che vi è dietro, può essere compresa solo in inglese: possessing. Non è il possesso né l’essere posseduti. È la coniugazione, l’indice di azione e la soddisfazione. È un verbo che nella sua coniugazione più perfetta esprime il dispotismo, l’arroganza politica, la migliore espressione del potere. Come può essere rappresentata questa nozione di possessing? Non credo che si rappresenti, ma che semplicemente si lasci sentire. E non è un sentire piacevole, è assolutamente violento. È precario.
Quali luoghi, quanti altrove attraverseremo nel visitare il Padiglione di Tania Candiani e Luis Felipe Ortega?
Ho stampato una mappa reale della città di Venezia e ho iniziato a localizzare gli edifici in cui dal 2007 è stato allestito il Padiglione del Messico: Palazzo Soranzo Van Axel, poi Palazzo Rota Ivancich (dove è rimasto per due edizioni), da qui alla Chiesa di San Lorenzo, per terminare ora e almeno fino al 2034 in una Sala delle Armi all’interno dell’Arsenale. Tania e Luis Felipe si sono interessati alla pianta in quanto forma e segno di potere e allo stesso tempo in quanto condizione di percorso. Le piante contrassegnavano il possesso di un certo territorio, determinavano la forma delle nuove città, in questo caso, l’imposizione della pianta rinascimentale fu una delle cause principali del prosciugamento (de-watering) dei sei laghi dove si era formata Città del Messico.
Allora, quello che si può vedere nell’opera è letteralmente tale pianta (pianta-memoria delle partecipazioni del Messico alla Biennale e degli edifici occupati), in rilievo. Questo momento, in cui lo spettatore scopre e visualizza la “pianta” così com’è sull’installazione, è fondamentale, una sorta di climax del percorso attraverso il padiglione.
Possessing Nature risponde a tono al tema principale All Future’s World?
Sì, Possessing Nature impone una logica di percorso che passa attraverso l’utopia e la catastrofe, la promessa e lo spettro. Per l’arroganza monumentale dell’architettura del potere in Messico.
Quale augurio formulare ai visitatori del Padiglione del Messico?
Innanzitutto, lasciare che l’opera scateni il senso di possesso in ogni visitatore, quindi lasciarsi portare verso il percorso che la forma impone per il dopo, salire e scoprire quel che c’è da scoprire. E se mi è concesso citare una sola frase, sarebbe quella del filosofo che alcuni decenni fa decise di leggere Il Capitale di Marx, pagina dopo pagina, come si farà in questa edizione della Biennale. Louis Althusser scrivevo: “Poiché non esiste una lettura innocente, dobbiamo piuttosto ricordarci di menzionare di quale lettura siamo colpevoli”.
Ginevra Bria
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