Biennale di Venezia. Il padiglione della Germania raccontato da Florian Ebner
Florian Ebner, uno fra i massimi critici tedeschi, propone un progetto collettivo. Gli artisti a rappresentare la Germania alla Biennale di Venezia sono infatti Olaf Nicolai, Hito Steyerl, Tobias Zielony e Jasmina Metwaly / Philip Rizk. Riutilizzando una struttura preesistente creata per la Biennale d’Architettura 2014.
Il Padiglione tedesco alla Biennale di Venezia, una volta di più, si sta per trasformare in una sorta di cassa di risonanza nei confronti della storia e dell’identità della Germania. A partire da riflessioni sui concetti di lavoro, migrazione e rivolta, cinque artisti trasformeranno l’edificio in una fabbrica per narrazioni politiche sulla contemporaneità, analizzando la nostra cultura visiva. Gli attori che popoleranno i lavori di Jasmina Metwaly / Philip Rizk (Varsavia, 1982 e Limassol, 1982), Olaf Nicolai (Halle an der Saale, 1962), Tobias Zielony (Wuppertal, 1973) e Hito Steyerl (Monaco, 1966) saranno figure di rivolta.
Dal tetto come luogo di libertà di Nicolai, che vi installerà una performance della durata di sette mesi, alle videoinstallazioni di Steyerl e della coppia Metwaly & Rizk, il Padiglione della Germania è qui raccontato dal suo curatore, Florian Ebner.
Il padiglione tedesco alla Biennale sarà una… fabbrica?
Il titolo fa riferimento alla parola tedesca Fabrik, che significa fabbrica, fucina, anche metaforicamente. Abbiamo insistito molto sull’accezione tedesca, sebbene avesse un’assonanza con la parola inglese, perché è un motivo ricorrente nei lavori dei quattro artisti invitati: una meditazione sul lavoro e sull’economia contemporanea, sulla circolazione e sull’immigrazione di immagini, sull’importanza della luce nell’era del digital media. Questi sono i principali filtri, i motivi tematici che possono aiutarci a leggere i pensieri e i concetti esposti al Padiglione della Germania.
Come si è strutturato il dialogo fra gli artisti, il padiglione e il curatore?
Tutto il processo fin qui svolto è stato un dialogo fra la storia dell’architettura del Padiglione e l’idea di questa nuova cultura dell’immagine nell’era digitale. All’inizio pensavamo di allestire una parte della mostra sul tetto, considerando la parte superiore della struttura come un topos, un’eterotopia. Non è stato possibile ma le opere di Olaf Nicolai porteranno comunque il tetto a essere parte attiva del percorso, dato che lì ci sarà una performance.
E per quanto riguarda gli altri artisti?
Anche nei lavori di Hito Steyerl, Tobias Zielony e di Jasmina Metwaly / Philip Rizk, con il film girato sulle terrazze sul Cairo, il tetto tornerà a essere una componente espressiva e visiva condivisa, creando un dialogo anche metaforico fra elementi architettonici reali e rappresentati.
E così torniamo all’edificio ai Giardini…
Il padiglione tedesco ha un’altezza incredibile, quasi ridicola. Quindi abbiamo escogitato una sorta di riutilizzo delle sue forme architettoniche, utilizzando il Chancellor’s Bungalow costruito durante la scorsa Biennale d’Architettura: su di esso abbiamo elevato lo spazio attraverso la costruzione di un “piano nobile”.
La mostra dunque avrà anche un ordine verticale, leggibile attraverso tre registri: il piano terra, il piano nobile e infine il lastrico solare per Nicolai.
Quale sarà il grado di autonomia dei diversi lavori?
Grazie a questi tre livelli, credo che le opere rimarranno al tempo stesso autonome e interagenti. In tutti e quattro i lavori sarà importante il ruolo dell’attore, del protagonista, visibile secondo diverse modalità espressive: tanto nell’approccio fotografico-documentale di Zielony quanto in maniera più filmica, teatrale e forse fisica di Jasmina Metwaly / Philip Rizk, dal digitale e virtuale di Hito Steyerl alla presenza corporea di Nicolai.
Qual è la tua definizione di immagine? E come sarà sviluppata nel padiglione?
Il sottotitolo del progetto è The Pavilion as a factory aside for producing images. Non dunque uno spazio dedicato a immagini per la produzione, ma il contrario: un luogo in cui osservare come le immagini producono loro stesse.
Agli inizi degli Anni Venti del XX secolo, László Moholy-Nagy affermò che l’immagine all’interno di media tecnici come cinema e fotografia non avrebbe più dovuto riprodurre la realtà, ma produrla. Dal canto nostro, l’idea è di produrre l’immagine secondo una visione più politica. Dunque, queste immagini non dovranno essere solamente la riproduzione, la rappresentazione della realtà, ma dovranno essere un dispositivo che la modifica e la produce.
Parliamo di te: sei un critico e un teorico dell’immagine, più che un curatore…
Effettivamente non sono un curatore d’arte contemporanea: la mia formazione è quella di storico della fotografia e dell’immagine. Il mio punto di partenza è un’indagine sulla nascita dell’immagine oggi e il bisogno degli artisti di poter leggere l’architettura in maniera differente. La mia necessità era quindi di riunire artisti che rileggessero lo statuto dell’immagine contemporanea attraverso la strutturazione in situ di lavori che interpretassero l’architettura.
Ancora una volta, gli artisti invitati al padiglione tedesco non sono tutti tedeschi.
Negli ultimi vent’anni ci sono state molte discussioni su cosa sia il padiglione tedesco in rapporto alla storia tedesca e alla sua stessa storia. Nel 2009 l’inglese Liam Gillik è stato invitato a esporre nel padiglione, mentre nell’ultima edizione il contributo tedesco è stato esposto nel Padiglione francese, con uno scambio di artisti come Ai Weiwei e Anri Sala.
A me non interessava tanto la questione se selezionare o meno artisti stranieri, piuttosto scoprire quanto noi – in qualità di spettatori, artisti e curatori tedeschi – avessimo a che fare con gli altri, oggi. Ovvero: qual è il nostro rapporto con l’Altro?
Quale tipo di immagine nazionale compongono questi quattro artisti?
Le loro biografie raccontano quattro differenti territorialità: Jasmina Metwaly / Philip Rizk vivono al Cairo, mentre Nicolai, Zielony e Steyerl vivono a Berlino. Già questo fatto rappresenta un cambiamento, perché per molti anni gli artisti che rappresentavano la Germania a Venezia provenivano dall’Accademia di Düsseldorf o da Colonia, mentre oggi la città più creativa è Berlino.
Nel padiglione la fotografia ha un ruolo centrale. Quali sono le basi teoriche di questa scelta?
Con l’avvento della materia fotografica si era diffusa l’idea che si trattasse di un medium atto a essere traccia, impronta della realtà. Con l’avvento dell’era digitale questo pensiero non ha più trovato fondamento. Se oggi si considera l’importanza tecnica dell’immagine nel nostro mondo, globalmente connesso, si comprende come in realtà la fotografia debba essere considerata attraverso la sua ubiquità.
L’immagine oggi è partecipata, onnipresente rispetto a quella voyeuristica degli Anni Settanta: quest’ultima era un’immagine che osservava ma che non interveniva. Oggi l’immagine fotografica è un dispositivo che ti aiuta a pensare all’immagine stessa attraverso una nuova visione, diventando esibizionistica, grazie anche ai social network. Basta osservare come l’Isis ha utilizzato quest’arma potentissima.
Potresti rivelare il budget a tua disposizione?
È una questione molto delicata, ma ritengo che alla fine sarà comunque come durante la scorsa edizione, attorno a un milione di euro, grazie al Foreign Office of the Federal Republic of Germany, all’IFA – Institute for Foreign Cultural Relations e al nostro principale sponsor privato, The Sparkassen-Kulturfonds of the German Savings Banks Association (DSGV). Come curatore ho partecipato anche al processo fundraising per ultimare il percorso al Padiglione, assieme all’istituto che ha commissionato la mostra.
Potresti esprimere un augurio, formulare un pensiero che accompagni i visitatori al Padiglione tedesco della 56. Biennale d’Arte di Venezia?
Uno dei filtri tematici posti da Enwezor è questa sorta di giardino del disordine che dovrà prendere luogo fra diversi campi semantici della Biennale. Mi auguro che la nostra mostra, Fabrik, rappresenti una piccola ribellione nei confronti dello spirito eretico di questa esperienza, del luogo che la contiene e del ruolo che l’immagine sta assumendo oggi nella contemporaneità.
Ginevra Bria
http://www.deutscher-pavillon.org/2015/
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