Biennale di Venezia. Il padiglione dell’Iran raccontato da Marco Meneguzzo
Marco Meneguzzo inaugura, assieme a un curatore iraniano, suo allievo a Brera, una collettiva. Quarantanove artisti da Iran, Pakistan, India, Iraq, Azerbaijan, Kurdistan e Afghanistan, per raccontare con dedizione e ironia le molteplici espressioni culturali dell’Asia Centrale.
In calle San Giovanni, in un vecchio rimessaggio per motori marini, verranno esposti lavori dell’iraniano Farhad Ahrarnia, ma anche degli iracheni Adel Abidin e Wafaa Bilal, e degli indiani Hema Upadhyay e Riyas Komu. Sono alcuni dei quarantanove artisti chiamati a interpretare The Great Game, il progetto espositivo del Padiglione Iran, curato da Marco Meneguzzo e Mazdak Faiznia per la 56. Biennale d’Arte di Venezia.
Il curatore italiano qui rivela i paesaggi metaforici che caratterizzano l’Iran e i suoi artisti.
Ci illustri titolo e tema del Padiglione iraniano alla 56. Biennale d’Arte a Venezia?
Il titolo The Great Game fa riferimento al percorso principale del padiglione. Al suo interno sarà presentato un secondo itinerario, meno esteso, dal titolo Iranian Highlights (con artisti quali Samira Alikhanzaradeh, Mahmoud Bakhshi Moakhar, Jamshid Bayrami e Mohammed Ehsai) dedicato all’arte iraniana più tradizionale.
The Great Game invece fa riferimento all’espressione utilizzata per indicare la rivalità strategica e il conflitto tra l’Impero britannico e l’Impero russo per la supremazia sull’Asia Centrale. Il periodo classico del Great Game è generalmente compreso fra il trattato russo-persiano del 1813 e la convenzione anglo-russa del 1907. Alla fine del periodo post-coloniale successivo alla Seconda guerra mondiale, il termine ha continuato a essere in uso per descrivere le macchinazioni geopolitiche delle grandi potenze a delle potenze regionali che si trovarono in competizione per l’influenza sull’area. L’espressione Great Game viene solitamente attribuita ad Arthur Conolly, un ufficiale dell’intelligence britannica, ma è stato introdotto nella nostra memoria collettiva da Rudyard Kipling in uno dei suoi più famosi romanzi, Kim (1901).
Come si traduce tutto questo nel padiglione?
Il percorso che rievoca quell’espressione descrive non solo la maggioranza di artisti iraniani selezionati, ma fornisce anche uno sguardo ampliato su autori che dall’India all’Iran e all’Azerbaijan si pongono quesiti in merito a una crisi geopolitica che dura da secoli. L’Asia Centrale è e rimane una zona di frizioni endogene ed esogene, ma detiene la fierezza culturale di una grande tradizione.
The Great Game fa anche riferimento alla superficialità con la quale noi occidentali consideriamo la storia iraniana. Come ripeto spesso, infatti, il vero problema di Teheran è l’Area C: le macchine non possono più accedere in centro. Un’iperbole per sottolineare quanto la loro crisi endemica, in verità, non li escluda da una vita in dialogo tanto con l’Occidente quanto con le diverse forze istituzionali interne al Paese. La cultura iraniana è molto radicata ed è condivisa dai suoi abitanti e non fa parte della cultura araba, anche se la loro lingua ne condivide i caratteri.
I quarantanove artisti testimoniano l’esistenza di un flusso culturale che attrae altre culture (come le regioni curde) sottolineando temi geopolitici di stretta attualità, non di cronaca diretta. Artisti che, utilizzando metafore, raccontano i disastri di un conflitto, riuscendo a condividere le sofferenze con ironia. A volte si può sorriderne e creare un linguaggio condivisibile, universale, globale e non necessariamente localistico.
In che modo hai lavorato con Mazdak Faiznia, il co-curatore del padiglione?
Lui è un giovane curatore di una fondazione d’arte in Iran, figlio di una facoltosa famiglia, ed è stato mio allievo all’Accademia di Brera. Ha viaggiato molto e ritengo abbia una visione tanto da esterno quanto da interno del suo Paese d’origine.
Quando sei venuto a contatto con i lavori dei quarantanove artisti invitati? E quali aspetti dei loro percorsi estetici e socioculturali ti hanno colpito?
Viaggio abbastanza spesso in Iran. Il sistema dell’arte è molto complesso, tra musei, gallerie e fondazioni. Assieme a Mazdak Faiznia abbiamo selezionato artisti che fossero legati al tema geopolitico di The Great Game, prestando molta attenzione alle differenze. Effettivamente, molti di loro vivono al di fuori dei loro Paesi d’origine. Ci siamo infatti resi conto che quel che li accomuna veramente è l’utilizzo culturale della medesima lingua, del segno, della calligrafia che crea un paesaggio mentale molto forte.
La parola è il vero fil rouge che rende coesa la narrazione e trasmette le vicende di una zona geopoliticamente interessante, in cui si può vivere benissimo e malissimo allo stesso tempo, in una sensazione continua di precarietà. Per questo motivo molti degli artisti propongono continui richiami alla memoria che deve tener vivi non solo le tradizioni apprese in ambito familiare e non solo i ricordi tipizzati, ma deve trasformarsi in un processo di formalizzazione della stessa.
Quali luoghi, paesaggi e territori verranno evocati?
Più che luoghi fisici, verranno evocati luoghi emotivi. La nostra preoccupazione è cercare di liberarci dagli stereotipi con i quali la maggior parte dei visitatori verrà a visionare gli artisti e il percorso. La società iraniana è complessa ed evoluta: non ha bisogno di offrire una sorta di esotismo aggiornato dei propri valori e delle proprie tradizioni. Ad esempio, la seconda comunità di studenti stranieri a Brera, dopo quella cinese, è iraniana. E il primo compito di The Great Game è mostrare a un pubblico internazionale, in un contesto di archeologia industriale come quello dell’ex rimessaggio per motori marini scelto per il padiglione, di quale grana sia la contemporaneità in Iran. Un’attualità composta da diverse realtà dell’Asia Centrale.
Come rappresentare il mosaico dell’Asia Centrale?
Nel nostro percorso si assisterà alla composizione di una geografia puntiforme, realizzata da figure che spaziano dall’area curda a quella azera. Non abbiamo voluto rievocare il post-sovietismo, ma saranno necessariamente indagate le dimensioni della condizione femminile, così come la religione, anche se rimarrà sullo sfondo, perché è un argomento molto più combattuto e interiore di quanto possa essere analizzato: un tema ben più profondo delle differenze tra sunniti e sciti. Come viene vissuta la religione sarà un’attitudine molto visibile nei modi e nei processi degli artisti.
Il tema della memoria come è stato affrontato?
Iranian Highlights si confronta con diverse individualità e la loro rappresentazione della memoria, mentre i quarantanove artisti di The Great Game si confrontano con il ricordo della guerra, del conflitto e delle difficoltà conseguenti, stabilendo due percorsi che si compenetrano e formano un Padiglione molto equilibrato nei confronti della scena culturale iraniana.
Qual è il legame del Padiglione Iran con il tema proposto da Enwezor, All the World’s Future?
I titoli delle Biennali rappresentano sempre grandi contenitori all’interno dei quali si cerca di far rientrare tutto. Un tutto che molto spesso viene riletto solo a posteriori, nonostante ciascun padiglione continui a perseguire la propria idea e i concetti che lo motivano. Il nostro obiettivo non sono i titoli di giornale e la spettacolarità, perché la curiosità mista a paura crea sempre stereotipi, e l’Iran non ne ha bisogno.
Un invito ai visitatori.
Che considerino The Great Game dal punto di vista artistico e che non guardassero alle orme, alle impronte lasciate dagli artisti, cercando di inserirle in stereotipi preordinati. Perché la cultura, la dimensione sociale iraniana rimane sempre al di sotto di qualsiasi superficie, non appena la si taglia, la si analizza in profondità.
Ginevra Bria
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