Durante gli Anni Zero e i più recenti, l’immaginario faticosamente si tende nell’articolazione di un racconto di Milano che ne sappia riattivare l’identità, discostandosi dagli stereotipi e dai cliché.
Così, se da una parte alcuni registi provano a innestare consapevolmente, all’interno del tessuto immaginario urbano incollato agli Anni Ottanta, dosi progressive di scetticismo e realismo (A casa nostra, 2006, di Francesca Comencini), sono gli scrittori delle nuove generazioni – tra gli altri – a ricostruire pazientemente il racconto di Milano e dell’esistenza nei suoi spazi, in un lavoro collettivo tuttora in divenire. Un’elaborazione che comprende libri come Nel nome di Ishmael (2001), Non toccare la pelle del drago (2003), Grande Madre Rossa (2004), Dies Irae (2006) e soprattutto Assalto a un tempo devastato e vile (2001; 2002; 2010) e Fine Impero (2013) di Giuseppe Genna; come i gialli di Gianni Biondillo (Per cosa si uccide, 2004; Con la morte nel cuore, 2005; Il giovane sbirro, 2007), o il suo saggio narrativo Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città (2010), scritto con Michele Monina.
E come il recente Estate crudele (2013) di Alessandro Bertante, romanzo di crudele malinconia ambientato nel luglio del 2003: “Percorro via Marco Aurelio fino in fondo e poi giro a destra. Il caldo è infernale, spossato dalla marcia precedente mi fermo a riprendere fiato. La canicola sprofonda il respiro, cammino sull’asfalto fosforescente di smog certo di essere solo al mondo, non è rimasto nulla di quegli anni incantati, quando il presente si smarriva dietro a un sorriso. Guardo la spazzatura sparsa in mezzo alla strada, sopra la mia testa il sole brucia, l’aria è immobile, io tristissimo. Tutto questo finirà, è inevitabile, e io che ho vissuto a un passo dai saggi non posso mascherarmi da vittima. Il sapore della birra rancida mi ha completamente invaso il palato quando, in lontananza, sento il traffico di viale Monza che mi ricorda di vivere in una città di pazzi e di sconfitti. Quello è un movimento che non si ferma mai, neanche d’estate, e continua, continua senza rispetto, per nessuno, inoltrandosi nel cemento fino alla periferia e ancora oltre, dentro alla vecchia pianura, devastata dalle lamiere e dall’ottusità dello sviluppo. Io non ci vado mai lungo il viale impestato, preferisco rimanere all’interno delle vie strette, nel ventre della mia vita perduta, protetto dalla complicità dei disperati. Ogni strada qui è un confine”.
È, questa, una ricostruzione collettiva, che coinvolge l’intero immaginario e che non si accontenta delle semplificazioni e delle cartoline legate alla moda e al design, ma che si dedica a riflettere sull’identità in crisi e in evoluzione di Milano, su ciò che la metropoli è e soprattutto su ciò che vuole essere. Un’indagine condotta con i mezzi della letteratura e della cultura, che rappresenta una vera e propria stratigrafia di una città che sempre più è la metafora e il simbolo dell’intero Paese. Questa stratigrafia narrativa è orientata a impegnare culturalmente ogni visitatore e abitante, immaginario e reale, di Milano, a renderlo consapevole delle dimensioni intrecciate del passato, del presente e del futuro – e ci offre al tempo stesso un modello valido per quella “esperienza culturale” alla base dell’intero progetto.
Come, del resto, emerge chiaramente dall’Epilogo, ambientato in un futuro non troppo lontano, de Il padre infedele (2013) di Antonio Scurati, che prefigura uno sviluppo nuovamente e finalmente armonico dopo la grande crisi e il disorientamento di questi anni: “Imboccando la via da piazza Carlo Erba, [la giovane donna] si gira a guardare alla sua destra l’edificio residenziale progettato da Peter Eisenman. Ne ammira l’andamento sinuoso, le facciate curve rivestite alla base di marmo travertino – la pietra che costruì Roma antica – e di marmo di Carrara su in cima – la pietra che costruì il Rinascimento fiorentino. L’effetto complessivo, però, è un richiamo al lifestyle urbano newyorkese. Piccoli giardini pensili si affacciano dai loggiati, serre eco-climatiche li impreziosiscono nelle superfici arretrate. Del palazzo d’inizio Novecento i progettisti hanno conservato soltanto la facciata che prospetta sulla piazza. Il resto è stato demolito e poi ricostruito. Il complesso abitativo è risorto dove un tempo c’erano gli uffici delle assicurazioni Zurigo, e prima ancora quelli della Rinascente, e prima ancora quelli del gruppo editoriale Rizzoli, e prima ancora le celle di un carcere femminile”.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati