La storia del MAAM. L’arte prende vita in uno strano museo a Roma (2)
Siamo ancora sulla Prenestina, sempre al civico 913. Perché vi stiamo raccontando la storia del MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz. Qui trovate la seconda e ultima puntata di una inchiesta verbovisiva fatta di creatività e ambizione.
MAAM, UN MUSEO ATIPICO
Non c’è separazione tra spettatori e artisti quando l’arte entra in casa e la casa diventa arte. Questi iniziano a rispecchiarsi gli uni negli altri: “Ogni artista con la sua estetica non dimentica di essere altro”, dice Giorgio De Finis, e viceversa. L’ideatore del Maam, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Tor Sapienza, sorto dentro e con la città meticcia di Metropoliz, dice che “non si tratta di un collettivo ma un’opera collettiva: l’arte è individuale, ma il progetto è unico”. Unico anche nel suo genere: un museo che non ha eguali nel mondo e non può rientrare nella definizione dell’International Council of Museums perché è pura relazione, un luogo dove vita comune e arte convivono e si toccano davvero – un “museo reale”, l’ha definito l’artista Cesare Petroiusti – qui non si fanno catalogazioni e non si richiede ordine e compostezza, si ricorda solo che “il gioco dell’arte è una cosa seria”. “Tutti possono farlo perché tutti siamo fruitori”, prosegue Giorgio, “ma bisogna anche capire che essere artisti è una professione”. Il tentativo ha funzionato: dall’occupazione e nascita di Metropoliz alla creazione del Maam cadeva il “noi” come gruppo chiuso, perché ora “ci interessava aprire la porta, evitare l’isolamento da enclave necessario per la difesa politica, come testimoniato dall’opera di James Graham nel cortile interno, un Refuge scritto su delle parabole amplificatrici. Oggi arrivano migliaia di visitatori”. La chiave di lettura è il contenuto stesso, il progetto: “Come struttura abbandonata a se stessa il Maam non avrebbe senso, non verrebbero gli artisti. L’arte diventa una trappola in senso positivo”.
L’ARTE COME BARRICATA
Un cavallo di Troia, una corazza che spende se stessa per proteggere lo spazio in modo simbolico e concreto, come nei Guerrieri della luce di Stefania Fabrizi, compatti e maestosi dietro la porta di ingresso. Le barricate reali del Metropoliz trovano nel Maam delle barricate ideali contro forze dell’ordine e ruspe, “per questo quando Giorgio è arrivato con la proposta ci è sembrata subito interessante”, ricorda Irene dei Blocchi Precari Metropolitani, fautori dell’occupazione abitativa. “Abitanti e artisti sono mondi differenti che si incontrano”, aggiunge Giorgio, “ma nessuno voleva fare un altro museo identitario, l’arte è applicata alla multivisione, gli artisti sono qui per il semplice diritto di esistere”.
Altra protezione è quella pensata per i bambini, creando nuove opportunità: vivere dentro l’arte apre loro la mente, “durante i laboratori artistici cerchiamo di fargli comprendere che l’arte è un percorso”, come quello necessario per capirsi e convivere, “ogni artista ha i suoi modi di esprimersi e quello, per esempio, fa intendere ai più piccoli che esistono diverse prospettive che messe tutte insieme portano ricchezza”.
“Per prima cosa decidemmo di sistemare questa sala”, dice Giorgio seduto tra i banchetti dei bambini, all’interno della Ludoteca, intesa non solo come luogo di gioco ma anche di studio. Qui l’onlus Popica ha trovato uno spazio comodo per insegnare l’italiano. Gli artisti hanno prima riparato il tetto e poi realizzato le loro opere in ogni spazio, come il grande blob color carta da zucchero che sgocciola colori, dell’artista Veronica Montanino che non aveva mai realizzato opere street. Ma il Maam ispira anche questo: “Il mio è stato il primo intervento in assoluto, c’erano solo i relitti del cantiere cinema e ancora non capivo bene cosa fosse il Maam. Mi hanno detto che per la ludoteca volevano un lavoro prezioso ‘come quello che fai per le gallerie’. Il primo incontro è stato coi bambini, prima del muro ho dipinto loro perché la mia opera è dedicata a loro, la parte più ricettiva del Maam. Allora ho intuito che questo è un esperimento di contaminazione non solo artistica ma anche antropologica e politica, che farà capire le differenze, tra un rom che vive nel campo e quello che vive nell’arte, per esempio. Allora istintivamente ho pensato a un blob che scivola senza centro prendendo lo spazio in modo incontrollato. Il Maam è come una profezia che porta ispirazione a tutti, gli artisti che guardano altri artisti al lavoro, ogni segno risponde al segno”. Per non parlare di chi sperimenta lavori insieme, come Giovanna – Giò – Pistone con Alessandrini o Franco Lo Svizzero (che si chiuse a lavorare nella “Stanza della Cattedrale” per undici giorni) con la stessa Montanino.
TOPOGRAFIA DI METROPOLIZ
“La prima forma d’arte è vivere qui dentro”, commenta Irene dei Blocchi Precari Metropolitani, movimento traino durante l’occupazione: in un dispositivo del futuro e insieme pezzo di archeologia industriale che vanta già tre periodi artistici. Il periodo pre-Space, quando furono invitati filosofi, fisici e astronomi per parlare del viaggio impossibile verso la Luna; il periodo Space Metropoliz, durato il tempo di realizzazione del film di De Finis e Fabrizio Boni che documenta lo “Spazio”, da molti ritenuto impossibile da abitare che diventa finalmente raggiungibile; l’attuale periodo post-Space, con nuove opere da presentare ogni trimestre, con le feste di solstizio ed equinozio, continuando cioè a seguire la Luna. Artisti chiamano altri artisti. Tutti aiutano gli abitanti nella loro impresa e viceversa.
Le famiglie si dividono tra palazzi e caseggiati all’interno della città, tra “Piazza Perù”, dove risiedono i sudamericani in case dignitosissime, e il “Corridoio dei rom”, dove si affacciano le porte di piccoli appartamenti, prima probabilmente uffici. Ora i Guerrilla Spam, che già avevano segnato la cucina con un Peccato originale, lo stanno dipingendo con un murale che omaggia la diversità, come “una Torre di Babele realizzata”, dice uno di loro, Andrè Guerrilla, mentre una bambina gli si affianca iniziando a disegnare sul muro, “ogni piano è dedicato a un Paese e la torre sta in mezzo tra terra e mare, cielo e spazio”. Finito nel mese di gennaio, risulta meno “violento” del loro solito: “È come un affresco di una chiesa, adatto per chi vive qui, soprattutto per i bambini. Diciamo agli artisti di provare l’esperienza di creare anche ‘di sopra’, dove vivono le persone, ti devi mettere in un’altra prospettiva”. Una donna gli offre del tè e noi proseguiamo il nostro giro.
MENO TAG PIÙ MURALES
All’inizio dell’occupazione c’erano tante tag e un solo un murale, nella sala delle vasche di scolo, che rappresentava piccole balene arancioni dentro l’acqua. È l’opera numero 0 dell’artista romano Hitnes, che non sapeva che da allora dentro quella fabbrica ne sarebbero apparse decine: oggi si parla di quasi quattrocento opere che hanno trasformato “una scatola bianca” in una casa-città-museo che ha dentro un fermento di vita che non si può descrivere. In mezzo a questo gigante fatiscente, che già vanta muri da 150mila euro, girano un sacco di bambini. Giocano per i fatti loro o collaborano alle opere.
Alcuni erano rimasti colpiti dal lavoro dei Collettiva Geologika, intenti a trasformare un muro della Sala del camino. Con le manine si erano messi a plasmare terra e paglia per quella che gli artisti immaginano come Sala del consiglio della città. Terra – con “il fuoco trasformatore” di Mauro Magni che avvolge le pareti di fronte – “perché la materia è femmina, la natura è politica e il cantiere è il nostro quadro”.
Così i bambini imparano a rispettare le opere: “Abbiamo visto sparire qualcosa, ma si tratta solo di qualche fiore o perlina da mettere tra i capelli”, scherza Michela, studentessa di Architettura, che qui collabora come tuttofare. “Cerchiamo di spiegargli che, anche se è un mestiere che possono fare in pochi, l’arte appartiene a tutti” dice Giorgio. L’importante è non ricreare un “effetto favela”: i ruoli vanno rispettati già che la protezione dello spazio occupato passa dal valore del luogo, “dalla riconoscibilità di chi lavora qui con un curriculum alle spalle”. Altrimenti si banalizzerebbe tutto.
Alice Rinaldi e Gabriele Santoro
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