Un artista in copertina. Intervista a Canedicoda
Classe 1979, ombra grigia dietro agli esordi di Nico Vascellari ma lontano dalla cultura dell’ego e dai clamori mediatici, di una timidezza contagiosa, Canedicoda è difficile da catalogare. Design, moda, musica sperimentale, performing arts, si muove con una disinvoltura “naturale” e senza barriere. Vede la musica come un linguaggio sociale, perché sostiene che l’artista, l’ambiente che lo circonda e il pubblico devono trovare l’armonia perfetta. Alla proposta di “creare” la copertina di questo numero ha detto: “Ma… io non so se sono un artista”.
Che libri hai letto di recente?
La pelle del fantasma di René Daumal, Poesie e Canzoni di Bertolt Brecht, Indiani in tuta di Jaime de Angulo.
Che musica ascolti?
Lettera 22, Maurizio Abate, Salvatore Martirano, Ilpo Väisänen e Pan Sonic tutto, Jake Maginsky, Jung An Tagen, Lifetones, Muslimgauze, Neil Young, Nicola Bernier, Sibylle Baier, Lubomyr Melnyk, Ultraeczema tutto, Holidays tutto, Senufo tutto.
I luoghi che ti affascinano.
Palermo?
Le pellicole più amate.
Umido come Holy Motors, muto come Aurora, fumettoso come Sin City.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Direi Carlos Casas per l’umiltà, l’acqua per la versatilità.
Come, dove e perché Canedicoda?
Per un bisogno d’identità, usando una maschera sincera. In relazione con me stesso e nel confronto con l’esterno. Il perché è asciutta necessità primaria. Il nome deriva da un gioco: la coda, elemento d’istintività e trasparenza, è proprietaria del cane, esempio di fedeltà.
In principio furono le t-shirt. Poi il contributo al successo di Nico Vascellari. Risale al 2008 un tuo evento musicale nello spazio Codalunga di Vittorio Veneto.
Mi parve più semplice e immediato generare e vendere t-shirt con le mie serigrafie piuttosto che proporre i miei segni chiedendomi se fossero arte o meno. Vorrei essere pratico e informe. Con Nico Vascellari c’è stata una forte e viscerale amicizia, un’intensa e spontanea collaborazione prima musicale, poi di aiuto e supporto al suo lavoro. È stato naturale affiancarlo: si costruiva, c’erano ottime situazioni dove sperimentare e imparare. Poi, forse, diverse gestioni dell’ego ci hanno allontanato. Io ho il mio carattere, le mie debolezze, le mie necessità. Resta un forte ricordo. Ho dato il mio contributo a Codalunga dal 2008 al 2011. Riconosco meno la forma che ha preso adesso.
Organizzi concerti molto spesso in location e con format inusuali. Ottaven è il nome che hai scelto per quest’attività che si fonda su un binomio per te indissolubile: musica e tempo. Come?
Considero la musica, intesa solo come suono, come un linguaggio puro, poco incline alla bugia. L’ascolto è intimo ma accomunante. Ho emotività controverse, di amore e odio, per l’organizzare concerti. Come Ottaven firmo la musica che “compongo” io dal 2003. Come Piattaforma Fantastica, insieme a Stefano di Holidays Records, promuovo progetti sonori che ritengo utile condividere.
Stilista, designer, musicista, set-designer, organizzatore di concerti. L’unica etichetta che non ti sei mai cucito addosso è quella d’artista.
Ho letto in un libro primitivo: la specializzazione, prima o poi, mette fine all’evoluzione.
Crei abiti ma la fattezza è sempre volutamente artigianale e ogni pezzo è unico. Sei un autentico anti-fashion. Non sono in molti a chiamare un pullover “collage di lana”.
Libertà è una condizione che cerco. Alimentarsi con gusto e cambiare. Sentire un abito come tuo, come pelle. Ritengo l’imperfezione una variabile sana. Elasticità, respiro e – perché no? – vedere il tempo come una rana.
Mi sembra che a unire tutti i tuoi lavori ci sia un elemento fondamentale: il disegno.
Disegno come gesto. Dar forma a una necessità attraverso l’una o l’altra tecnica. La carta è stata uno dei primi ambienti, anche se ricordo bene quanto cantassi da bambino. Non trovi sensato disegnare con la voce?
Si può fare… Stampe su magliette, carta, stoffa, tela e collage di lana, il tuo lavoro “tipografico” sembra avere un ruolo molto importante.
Mi piace considerarle come azioni primitive. È apprezzabile lasciare dei segni.
Al MAMbo l’anno scorso, nell’ambito del Live Arts Week III, hai realizzato una videoinstallazione ambientale per la quale hai raccolto più di 2mila video su Youtube sul tema dell’efflorescenza. Hai anche realizzato una serie di sedute multiuso che hai messo all’asta alla chiusura della mostra.
Vivo Youtube come un ritratto organico che ci osserva. Live Arts Week è un momento dove provare, in parte capire e crescere. È un contesto che, rigenerandosi, cerca di restare ibrido. Io ci vedo un’ottima sensibilità musicale, una provata esperienza per le performing arts, un’importante attenzione per gli ambienti, un’elogiante propensione al dubbio e una gentile volontà di seminare.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Dal rispondere alle domande, ho contato fino a sette, ho scelto tre dischi, mi sono messo al lavoro e forse ho anche ballato un po’.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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