A colloquio con Martial Raysse. Dalla mostra a Palazzo Grassi

Incontro col maestro francese in occasione della grande retrospettiva a Palazzo Grassi. In cui dichiara tutto il suo amore per la pittura figurativa, spiega la differenza tra icona e idolo, racconta l'evoluzione della sua arte.

La straordinaria retrospettiva di Martial Raysse (Golfe-Juan, 1936) a Palazzo Grassi mescola tutti i periodi del maestro francese. Valorizzando le fasi, ma lasciando il dubbio sulla continuità. L’autore non ha dubbi: il trait d’union è una concezione della pittura come miglioramento continuo, come pratica nobile ed esemplare. Pur meno “radicale” nelle dichiarazioni rispetto alla sua opera e nonostante un’estrema disillusione nei confronti dell’arte contemporanea, Raysse dimostra un’estrema coscienza e responsabilità rispetto a moventi e conseguenze della sua opera. Ecco il nostro colloquio.

In un’intervista recente ha dichiarato che le sue immagini sono icone, mentre quelle di artisti come Warhol sono idoli. Può spiegarci meglio questa differenza?
Per comprendere bene l’arte del XX secolo – alla quale detto tra noi non credo per niente, ma questo è un altro discorso – bisogna conoscere la querelle relativa all’iconoclastia. Se si conoscono le differenti posizioni che si contrapposero in quella querelle si capiscono bene i rapporti fra arte figurativa e astratta. E la maniera in cui l’arte astratta – che corrisponde alla mentalità anglosassone – ha trionfato, prima di tutto per mezzo della filosofia della natura caratteristica del Protestantesimo, ma anche grazie alla potenza economica degli Stati Uniti. La pittura astratta ha soppiantato la figurativa e poi si è diffusa fino a oggi, con le installazioni che non sono altro che quadri astratti.
Ho molto rispetto per Warhol in quanto colorista, era un colorista zigano. Non si può capire Warhol senza conoscere sua madre, cattolica polacca zigana. La differenza tra la Gioconda e la Marilyn è che Leonardo con quel dipinto dà un’immagine della saggezza: la cosa interessante dell’icona è che rinvia a un problema generale, filosofico. L’idolo invece rimanda a una persona particolare. Se non si conosce Marilyn, il quadro di Warhol non ha nessun interesse.
Io ho capito presto questa cosa e quindi ho cominciato a scegliere personaggi che non rimandano a persone particolari. Mi ispiro a persone che conosco, per meglio arrivare alla verità, ma i personaggi non sono quelle persone. Sono solo personaggi che raccontano una storia.

Martial Raysse, Raysse Beach, 1962 - Centre Pompidou, Parigi - - veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 - photo © Fulvio Orsenigo

Martial Raysse, Raysse Beach, 1962 – Centre Pompidou, Parigi – – veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 – photo © Fulvio Orsenigo

Ciò sembra applicarsi soprattutto ai suoi quadri recenti, che sono allegorie, scene simboliche…
Sì, in essi utilizzo persone che conosco per arrivare a personaggi che esprimano una verità umana. Ma facevo lo stesso anche nei miei vecchi lavori.

Vedendo la mostra si cerca di trovare il legame tra i quadri del primi periodo e quelli più recenti. Lei dunque vede i due periodi in continuità?
Sì, c’è continuità. La grande differenza è sul piano della pratica. La pittura è una pratica, una lotta. E ha dei precedenti. Se si scrive bisogna aver letto Leopardi o Dante, non si diventa scrittori avendo visto una scena per strada… In pittura è lo stesso, è un linguaggio con dei precedenti e che richiede una pratica. La pratica pittorica si confronta col livello dell’eccellenza: chi fa le cose più difficili è il migliore, posto che abbia sentimenti ed emozioni da esprimere. La mia pittura ancora negli Anni Sessanta era una pittura elementare, perché era fatta di superfici uniformi, senza sfumature, profondità, prospettiva. Aggiungendo questi elementi ho alzato il grado di difficoltà.

Martial Raysse, Make up, 1962 - coll. privata - photo © Matteo De Fina

Martial Raysse, Make up, 1962 – coll. privata – photo © Matteo De Fina

Il cambiamento nella sua arte non corrisponde a un cambio nello spirito del tempo o nella sua visione del mondo?
No, è questione di pratica. Di migliorarsi ogni giorno, di fare cose più difficili e farle meglio, di superare degli ostacoli. Certo, il mondo cambia e anch’io sono debitore della mia epoca, ma la questione di fondo è la pratica.

Dunque è soddisfatto dell’allestimento di questa mostra, che mescola lavori di varie epoche, mentre l’esposizione del 2014 al Pompidou procedeva per cronologia.
Sì, perché qui ci si accorge che non c’è cesura. Ci sono solo differenti livelli di qualità, ma è la stessa persona che dipinge, con lo stesso spirito.

Martial Raysse, Le Jour des roses sur le toit, 2001-2003 - veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 - photo © Fulvio Orsenigo

Martial Raysse, Le Jour des roses sur le toit, 2001-2003 – veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 – photo © Fulvio Orsenigo

È famosa la sua frase degli Anni Sessanta: “Il Prisunic è il nuovo museo d’arte moderna”. La sua lettura della società di massa era critica o entusiasta? I suoi quadri dell’epoca erano decisamente radicali.
Bisogna considerare la situazione dopo la guerra. I ventenni avevano perso la giovinezza a sparare col fucile. La società del consumo, il Prisunic e tutto il resto sembravano una liberazione meravigliosa, il futuro sembrava radioso, c’era lavoro per tutti… Siamo stati trasportati da tutto questo. Ma velocemente abbiamo capito che c’era qualcosa di non molto chiaro, abbiamo iniziato a dubitare.

E oggi, qual è il “nuovo museo d’arte moderna”?
La nozione di moderno era assurda. Moderno vuol dire “ciò che corrisponde al tempo presente“. Classico è “ciò che può servire da esempio“. Io ho scelto il classico, perché ciò che conta nella vita è servire da esempio, a me stesso e agli altri. Sono gli esempi che mi hanno fatto cambiare. Il museo d’arte moderna esiste solo nella testa delle persone: quella che si vede nelle fiere e negli altri luoghi non è la vera storia dell’arte, è la storia dell’arte dei mercanti. L’arte moderna e contemporanea sono una retorica, perché ogni opera si legittima su quella precedente. Se togli un’opera da questa catena, tutto crolla.

Martial Raysse, La Belle Mauve, 1962 - Musée des Beaux-Arts, Nantes - photo © RMN-Grand Palais, Gérard Blot

Martial Raysse, La Belle Mauve, 1962 – Musée des Beaux-Arts, Nantes – photo © RMN-Grand Palais, Gérard Blot

Qual è il suo rapporto con la parola e il concetto di kitsch?
Al massimo posso essere interessato al barocco, alle espressioni esacerbate. Come i pittori tedeschi del Cinquecento, Altdorfer… In me c’è un lato barocco; le persone mi definiscono kitsch perche non hanno cultura. Barocco nel senso di andare un po’ al di là dei canoni  abituali. Il problema è la mancanza di cultura abissale delle persone che si interessano oggi all’arte. Kitsch non vuol dire niente, è un nipote del barocco, una deviazione del barocco.

Nel suo primo periodo lei alludeva al kitsch: inseriva nei lavori oggetti dozzinali, rielaborava l’immaginario della società dei consumi…
Sì, la questione era rielaborare, far capire che la società di massa non era tutta rose e fiori.  Anzi no, ripensandoci non si trattava di kitsch, ma di barocco, già all’epoca.

Martial Raysse - veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 - photo © Fulvio Orsenigo

Martial Raysse – veduta della mostra a Palazzo Grassi, Venezia 2015 – photo © Fulvio Orsenigo

È ancora possibile per un artista essere radicale e contestatario? Lei descrive l’arte contemporanea e le installazioni come prodotti di mercato. Gli artisti di oggi non hanno il coraggio di essere radicali?
Sono un po’ severo con le installazioni perche le ho fatte prima di tutti. Le installazioni sono interessanti solo se guardi a come sono fatte. Come per un apparecchio, un macchinario. L’arte è un’altra cosa, deve essere utile, far sognare le persone…  Spero che la mia mostra serva a far comprendere ai giovani artisti che c’è un’alternativa, che non siamo condannati a rimanere all’interno dell’arte contemporanea. Ma l’attrattiva dei soldi è cosi forte, l’influenza delle scuole d’arte – che fanno parte del sistema – è così forte che è difficile per un giovane artista pensare che ci sia un’alternativa.
Però ci sono molti giovani pittori figurativi eccellenti, nei prossimi anni ne sentiremo parlare, c’è molta pittura in giro. Pensi alla strage di Charlie Hebdo: rappresenta l’irruzione della pittura nel mondo attuale. Con una matita cambi il mondo: è sconvolgente! Il problema è che non c’è interesse, ad esempio in Francia non ci sono gallerie di pittura figurativa. La società cerca di far sì che le persone non abbiano più mestiere, si fa fare di tutto ai lavoratori per pagarli meno. Ma è importante che i giovani artisti capiscano che ognuno nel suo mestiere deve dare il meglio e fare la cosa più difficile. La pittura è importante perché mette in gioco lo spirito delle persone, non è innocente. Non esiste innocenza in pittura… Io ho cambiato la mia arte perché sono un padre di famiglia, la Pop Art era commerciale e non volevo che i miei figli pensassero che fosse una cosa buona. C’è di meglio. Ho scelto di lavorare e di cercare di progredire nella qualità.

Stefano Castelli

Venezia // fino al 30 novembre 2015
Martial Raysse
a cura di Caroline Bourgeois
PALAZZO GRASSI
Campo San Samuele
041 5231680
www.palazzograssi.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/43685/martial-raysse/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Castelli

Stefano Castelli

Stefano Castelli (nato a Milano nel 1979, dove vive e lavora) è critico d'arte, curatore indipendente e giornalista. Laureato in Scienze politiche con una tesi su Andy Warhol, adotta nei confronti dell'arte un approccio antiformalista che coniuga estetica ed etica.…

Scopri di più