Appello a sporcarsi le mani. Luca Bertolo scrive a Michele Dantini
Alcuni recenti interventi di Michele Dantini a proposito della critica (d’arte) hanno generato reazioni interessanti. Un dialogo costruttivo, il più delle volte. Uno dei migliori esempi è questa lettera aperta che ci ha inviato Luca Bertolo. L’ottica è stavolta questa dell’artista “sotto i sessant’anni”.
Caro Michele,
i tuoi recenti interventi su Artribune (Quattro tesi sulla critica e Per una critica del dissenso) mi hanno colpito. Li ho percepiti come un appello civile di più ampia portata rispetto alla pur importante proposta per rivitalizzare una disciplina in crisi. La critica come strumento di consapevolezza e autonomia è una roba che ci riguarda tutti: critici, curatori, artisti, giornalisti e pubblico sensibile. Le tue tesi, concise e luminose, hanno il raro pregio di legare i caratteri della ricerca settoriale (precisione, peer review, trasparenza, curiosità disinteressata) a quelli della dimensione politica (generalizzazione, passione, interessi). Vorrei allora approfittarne per un paio di commenti.
Premessa: l’arte, almeno per quanto riguarda la creazione (e la critica di conseguenza, almeno per quanto riguarda l’interpretazione), mi pare per sua natura poco disponibile alle generalizzazioni. In questo senso la patafisica di Alfred Jarry è un’ottima metafora dell’arte: scienza delle singolarità. Metafora paradossale, ovviamente, dato che la scienza cerca al contrario poche leggi generali che spieghino i tanti singoli fenomeni. L’arte vive molto concretamente questo paradosso: è una pratica che scaturisce da impulsi profondi, individuali, scarsamente articolabili in un discorso, ma è anche una pratica che al contempo aspira a innalzarsi a un livello più generale. La grande domanda è: come scatta questo cortocircuito tra sotto e sopra, tra livello inconscio e livello consapevole, tra riccio e volpe (mi riferisco all’interessante conversazione tra te e Flavio Favelli uscita su doppiozero)? A essere sincero, dopo anni, non l’ho ancora capito. Ma una cosa mi è chiara, e cioè che quel cortocircuito o salto quantico non è la realizzazione di un programma. In sostanza, quello che mi pare distinguere i nostri punti di vista (la questione dell’“agenda dell’arte”, che altre volte abbiamo discusso) riguarda la convinzione o meno nella possibilità, per un artista, di scegliere del tutto liberamente l’oggetto della propria pratica. Ecco, alcuni di noi quella convinzione non ce l’hanno. È una consapevolezza un po’ frustrante, lo ammetto. Ma la parziale autonomia dell’opera rispetto alla volontà del suo autore è anche garanzia di quel “sempre oltre” che connota l’arte, consegnandola per questo al gioco dell’interpretazione – quel gioco molto serio (e mai concluso) che rende l’arte pubblica.
Ma eccomi alle tue tesi, alla seconda in particolare. Scrivi che “adottare prospettive sistemiche può servire per discutere criticamente, con attitudini distaccate, il mondo della produzione artistica contemporanea, le politiche di marketing, il mecenatismo, i viscosi vincoli di fedeltà interni alle tribù“. Giustissimo. Ma aggiungi: “Se facciamo critica sociale significa che abbiamo scelto di abbandonare il piano della pedissequità e della cronaca culturale”. Sembrerebbe un aut aut tra due estremi, il primo positivo e il secondo negativo, che esauriscono il campo delle possibilità. Mi pare invece che la funzione più interessante ed eccitante della critica, quella di offrire una lettura dell’opera, quando è condotta ad alto livello poco ha di pedissequo o di cronachistico. Sai meglio di me che tracciare possibili genealogie, decodificare impulsi profondi che possono aver mosso l’artista (e dunque, per metonimia, possano muovere altri esseri umani) sono già i primi passi verso un piano sociale della critica. Mi dirai che per l’appunto hai cominciato le tue tesi dichiarando la connoisseurship un prerequisito della critica, in assenza di cui “prevale la chiacchiera sociologica, la glossa dottrinaria, il commento alla poetica (o meglio la sua parafrasi)“. È vero. E sono felice che tu abbia rimesso con autorevolezza questa premessa al centro dell’attenzione. Resta il fatto che tra i tuoi tanti interventi e saggi di questi anni, laddove non proponi una critica sociale/politica, ti dedichi prevalentemente all’interpretazione di autori e opere già storicizzate. Niente di male, anzi un lavoro prezioso. Ma comprenderai anche le aspettative che una mente vivace come la tua può creare in un panorama critico carente: come giudicherà Dantini questi artisti stranieri amati dai curatori? Dantini non parla degli artisti italiani sotto i sessant’anni perché li reputa tutti inetti, inoffensivi o succubi di mode culturali? Quali opere recenti lo fanno sognare?
A chi ti chiede di “sporcarti le mani” con gli artisti del presente ribatti prendendo le distanze dal modello di “complicità” tra critico e artista, che da vari decenni non avrebbe più alcuna giustificazione “alta”, essendosi trasformato da alleanza cavalleresca – “un’aristocrazia artiste” che sfida “le aristocrazie della nascita o della ricchezza in nome di una maggiore pienezza di esperienza” – in poco più di un misero scambio di favori. La tesi è provocatoria proprio perché contiene della verità. Ma credo che abbia dei punti deboli. In effetti, la modalità dell’alleanza è oggi quanto mai diffusa: alleanze tra curatori e artisti, tra curatori o artisti e galleristi, tra collezionisti e galleristi… Il punto semmai è che i critici non compaiono più in questo tipo di alleanze. In parte, perché sono rimasti in pochissimi, in parte, perché in fatto di organizzazione culturale la (non scontata) competenza del critico è diventata prerogativa di quella figura professionale, il curatore, che lo ha quasi del tutto soppiantato. In questo senso, la tua proposta appare già superata dai fatti. Eppure, proprio perché le cose stanno così, c’è un grande bisogno di critici che analizzino – critichino appunto – opere e artisti (anche, insisto) contemporanei, affinché l’enorme massa di scelte curatoriali, spesso non argomentate, e l’ipertrofia dei comunicati stampa trovino almeno un contraltare pubblico. Una critica che si occupa seriamente di artisti contemporanei non presuppone necessariamente alleanze: opera e argomenta delle scelte, propone delle interpretazioni. Sia come sia, abbiamo bisogno di una critica che, come dici tu “dev’essere libera. Ripeto: libera”.
Luca Bertolo
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