Biennale di Venezia 2015. L’opinione di Antonella Crippa
Exquisite Cacophony. Prendendo a prestito il titolo dell’opera di Sonia Boyce, Antonella Crippa sintetizza la sua visione – anzi, audizione - della Biennale di Venezia diretta da Okwui Enwezor. Tra suoni, frastuono e rumori dai futuri del mondo.
Quando il presente è nel caos, “il linguaggio diviene gutturale e si trasforma in pietra“, scrive il direttore Okwui Enwezor nel suo testo pubblicato nel catalogo della Biennale di Venezia 2015. “L’esposizione“, prosegue, “si inserisce nel rumoroso, polveroso e flemmatico oggi” e pertanto pullula di opere che si riferiscono a rovine, incertezze e confusione, soprattutto all’Arsenale.
Al contrario di quello che ci si aspetterebbe da una rassegna di arte visiva, tuttavia, il caos è piuttosto una cacofonia, il cui obiettivo è “orchestrare” e far ascoltare i suoni del mondo: sia i sussurri che provengono dalle piccole realtà individuali, sia le grida collettive. L’idea è contribuire a una presa di coscienza che inneschi un processo positivo, nell’attuale contesto globale ingiusto e violento, dove la ricerca del senso sembra un esercizio impossibile.
Lo spazio della rappresentazione – considerando che una mostra come la Biennale è anche la messa in scena di una sintesi – è quello definito da Now di Chantal Akerman, un’installazione video su numerosi schermi al centro di una stanza. Immagini del deserto riprese da una macchina che sfreccia sono lo sfondo di assordanti detonazioni e spari, come fossimo al confine di un tormentato Stato mediorientale. In un’altra sala, in antitesi, è allestito lo spazio dell’incomunicabilità, definito dalle sculture composte da strumenti musicali, lasciati muti, di Terry Adkins.
Mai come in questa edizione sono presenti così tanti lavori dalla forte componente sonora, dalla Exquisite Cacophony di Sonia Boyce a Gone Are the Days of Shelter and Martyr di Theaster Gates. Ma oltre al frastuono c’è il suono e, oltre il suono, la musica. Carsten Höller, ad esempio, propone Fara Fara, una videoinstallazione in cui racconta di due cantanti rivali di Kinshasa, dove è viva una tradizione musicale che ha un seguito enorme, un immenso potere della musica, a tratti struggente, a tratti irresistibile. Christian Boltanski risponde con il suo poetico tintinnare delle campanelle della videoinstallazione Animitas, un delicatissimo monumento che risuona nelle praterie cilene. In alcuni casi la visione implica un vero e proprio tempo da trascorrere a orecchie aperte, come succede per udire le sofisticate composizioni di Charles Gaines. La stessa concentrazione è necessaria per assistere al programma di letture e performance che si susseguiranno nell’Arena allestita nella “struttura sepolcrale” del Padiglione centrale, nel “gran bazar” della “terra incognita” dei Giardini (i virgolettati sono di Enwezor).
L’esposizione non è allestita in base a proporzioni auree perché è la realtà stessa a non essere ordinata né ordinabile. È vero, non ci sono didascalie ragionate che aiutino il visitatore. La mostra è senza spiegazioni perché è la realtà stessa a non offrire strumenti per decrittarla e risulta opaca al pensiero razionalista, a tratti autistico, dell’uomo occidentale del XXI secolo.
Forse è opportuno usare altri sistemi di comprensione, magari mutuati dalla cultura africana, più a suo agio con la mescolanza disordinata e le percezioni di tutti i cinque sensi. Questo sembra suggerire il curatore quando seleziona tanti lavori di artisti provenienti da quel continente, da Gonçalo Mabunda a Barthélémy Toguo.
In un recente saggio per la mostra Africa al Mudec di Milano, Gigi Pezzoli ricorda: “È necessario ascoltare tutte le voci che animano una cerimonia religiosa africana e porre attenzione agli oggetti rituali, ai ‘feticci’, ai vestiti, alle decorazioni corporee e agli ornamenti. Non si possono poi trascurare le danze e i gesti, la musica e i suoi strumenti, gli spazi spesso così differenti l’uno dall’altro che ospitano tali oggetti e i luoghi dove le cerimonie si svolgono. Lo spazio religioso africano è decisamente sinestetico, saturo di forme, colori e suoni e odori capaci di agire su tutti i ricettori sensoriali che l’uomo ha a disposizione“. L’attuale edizione della Biennale sembra simile a quel tipo di teatro, dove è comune una tendenza all’accumulo. I suoi meriti sono, tra gli altri, quelli “di dare forma, corpo e voce ai misteri dei mondi dell’invisibile, alle paure più sommerse e alle infinite ambiguità dell’esistenza umana“.
In quest’ottica, l’epico Vertigo Sea di John Akomfrah, dove la potenza della natura, il sopravvivere del canto delle balene ai tentativi di sterminio dell’uomo, anche rivolti contro la sua stessa specie, e l’incessante rinnovarsi delle stagioni, può essere letto come una sintesi del mondo… o una divinazione incoraggiante.
Antonella Crippa
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