Biennale di Venezia 2015. L’opinione di Massimo Mazzone
Mettere in scena Marx, leggere e cantare “Il Capitale”, e così neutralizzarlo una volta per tutte. Seppellendolo definitivamente. È questo in fondo l’obiettivo di Okwui Enwezor? L’affondo di Massimo Mazzone, al quale questa Biennale di Venezia proprio non è andata giù…
Forse il capitalista, che sa il fatto suo quanto a economia politica volgare, dirà di aver anticipato il suo denaro con l’intenzione di farne più denaro. Ma di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, e tanto varrebbe che avesse l’intenzione di far denaro senza produrre.
Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione III, Capitolo V
UNA MOSTRA INUTILE
La Biennale di Venezia diretta da Okwui Enwezor si presenta a mio avviso come un grandissimo sforzo intellettuale di ampliamento dell’orizzonte culturale proprio delle arti. E tuttavia, nonostante le premesse, risulta essere anche una delle più brutte e inutili mostre che la Biennale ricordi. Regge il confronto con alcune terribili Mostre di Architettura, tutte retorica e fashion, tipo Arte Architettura Società di Richard Burdett.
Alcune presenze come quelle di Gulf Labour Coalition o Marco Fusinato non riescono a rattoppare da sole l’ipocrisia di un’esposizione che propone l’estetica dell’arrampicatore sociale o del viveur consumista, del globettrotter museale, che naturalmente come estetica si specchia con ironia nella foto di Enwezor uscita su Uomo Vogue. Una proposta progettuale che rilegge il marxismo ma in definitiva applica il consumismo capitalista e l’estetica della moda.
Di gente con le mani curate, col fazzolettino carino, col cravattino e il cervello fino e che ha fatto fortuna sulla spalle e sul sangue della classe operaia in giro ce n’è tanta, fin troppa, e non si sentiva – in questo lugubre 2015 di cimiteri mediterranei e di rigurgiti fascisti in Europa – la mancanza di una proposta espositiva turistica/opportunistica delle arti, nei confronti della quale in molti, forse in troppi, avevamo riposto una qualche fiducia, un pregiudizio positivo.
Ci ricordavamo un grande curatore, un intellettuale coraggioso…
DISEGNETTI E DEPRESSIONE
Venezia è difficile, certo. Ma abbiamo visto la mostra dei disegnetti, delle cornicette, delle foto coi disgraziati retroilluminate come fossero insegne di panini, dei grandi artisti del passato decotti o defunti e per giunta male allestiti, forse per la fretta, nell’improbabile e assurda idea di legare una cosa storica e stratificata, complessa e articolata come La Biennale (che non è una fiera mercato) alla sbornia furbesca di Expo.
Fabio Mauri è sempre splendente: con The End accoglie il visitatore nel Padiglione centrale, ma esporre Mauri (e Pasolini) oggi, da morti, è veramente un merito oppure è un insulto alla loro e alla nostra memoria? Bisogna essere il direttore della Biennale per dare a Mauri quel che gli appartiene? Veramente non ci si rende conto che parlare da quella posizione significa parlare con l’amplificatore? Anche il povero Pino Pascali è stato riesumato e il suo cannone spara a salve contro le idiozie di un’attualità triste e depressa.
Non si sentiva la mancanza del solito Boltanski, e ricordiamo ai lettori e al direttore che David Harvey ha online da alcuni anni una lettura del Capitale niente male: forse potrebbe interessare.
UNA TESI BANALE SALVATA DAI PADIGLIONI
Quello che chiamano crisi in realtà è solo capitalismo: ci voleva tanto a dirlo? Lo sfruttamento fa schifo? Diciamolo agli sfruttatori, gli sfruttati già lo sanno. O invece si cerca di restaurare solo la tomba di Marx, mettendo in scena le sue parole, magari cantate, per seppellirlo definitivamente? Lo dico venendo da un’altra scuola di pensiero, quella anarchica e libertaria, ma usare e strumentalizzare in questo modo la filosofia, scomodare Walter Benjamin e l’Angelus Novus e Klee con la scusa dell’arte (e, sotto sotto, del mercato?) fa veramente dispiacere.
In quest’epoca globalizzata dal conformismo, i Padiglioni nazionali a sorpresa riscattano l’intelligenza e restituiscono a chi ama l’arte alcune visioni su mondi passati e forse futuri. Brasile, Russia, Austria, Serbia, Grecia, Uruguay, Belgio, Olanda da soli valgono la visita, laddove un senso della storia, delle lotte e dei conflitti sociali, i processi di emancipazione dalle dittature e dal colonialismo si rivelano più sinceramente, insieme ad alcuni altri eventi o effetti collaterali indesiderati, come l’istantanea occupy della Fondazione Guggenheim a cura del S.a.l.e. docks e di Macao, la mostra di Jimmie Durham, l’allestimento dell’Ucraina, la performance di Tania Bruguera e poco altro.
Una mostra da ricordare, rammentando le parole di Gayatri Chakravorty Spivak: “I subalterni possono parlare? Qui c’è ancora qualcun altro a parlare a nome loro”. Questo per non ripetere mai più l’errore di rimanere in silenzio di fronte alla superficialità che rischia di annichilirci.
Massimo Mazzone
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati