Biennale di Venezia. Il padiglione del Montenegro raccontato da Aleksandar Duravcevic
A Palazzo Malipiero, in San Marco, Aleksandar Duravcevic allestirà per la Biennale di Venezia un nuovo progetto dal titolo “Ti ricordi Sjecaš li se You Remember”. Una mostra che si preannuncia come una nuova terra cangiante, unione di un futuro visionario e di un passato doloroso, che non dimentica. E in catalogo c'è un testo di Daria Filardo, ennesima presenza italiana nei padiglioni nazionali.
Con il progetto Ti ricordi Sjecaš li se You Remember, la sottile materia all’origine di ogni immagine creata negli anni dai lavori di Aleksandar Duravcevic (Montenegro, 1970; vive a New York) rappresenterà il Padiglione del Montenegro alla 56. Biennale di Venezia. I diorami installativi affondano le loro radici all’interno di un diario emotivo che ha la propria sede nell’esperienza personale, profondamente segnata da una vita trascorsa attraverso il cambiamento di diversissimi paesaggi politici e sociali, provocati dagli assestamenti nel natio Montenegro. Artribune lo ha intervistato nel suo studio newyorchese.
Perché Ti ricordi?
Il titolo è ispirato al jargon, un tipo di linguaggio usato in un contesto particolare e che quindi potrebbe non essere perfettamente compreso all’esterno. In fondo uno jargon non è altro che una terminologia tecnica o un idioma caratteristico relativo a una speciale attività o a un gruppo. E questo jargon inizia con una frase, oppure con una domanda come: Ti ricordi?
Come interagiranno con il pubblico le tue installazioni? E dove sarà installato il lavoro?
Il Padiglione del Montenegro è allestito in un grazioso pianoterra negli spazi di Palazzo Malipiero: non è sul piano strada, ma nemmeno al piano nobile dell’edificio. Ovviamente non si tratta di un luogo espositivo tradizionale, non è un white box. Stiamo valutando se spostare all’esterno una parte della mostra, nella stradina cieca che porta all’ingresso, per attrarre un maggior numero di persone.
Premesso questo, il lavoro è rappresentato anche da una videoinstallazione site specific dal titolo Waiting. Mi auguro che ai visitatori questa esperienza appaia intima e diventi una sorta di patrimonio personale.
Dunque il tuo lavoro per la Biennale è totalmente inedito?
Per un caso fortunato, è una miscela di alcuni precedenti concetti e lavori che diventeranno, in qualche modo, comunque site specific. Ci sarà inoltre un’opera che sarà costituita da un frottage realizzato da una scritta istoriata su una pietra posta lungo un lato di un palazzo veneziano. Un “come mi manchi” che rappresenta un’antica lettera d’amore resistita ai secoli.
Qual è la tua definizione di identità nazionale?
Spesso, quasi scherzando, sostengo che il mio cuore si trovi in Montenegro, la mia testa in Italia e il mio corpo negli Stati Uniti. In mostra presenterò un lavoro, un testo inciso nel bronzo che dice: “gli albanesi credevano io fossi montenegrino / I montenegrini credevano io fossi albanese / Gli italiani pensavano io fossi slavo / I latinoamericani pensano che io sia italiano / I neri pensano io sia francese / e i francesi che io sia uno di loro”. Questo lavoro gioca con gli stereotipi, ma pone anche la questione dell’identità e dell’appartenenza.
Qual è invece la tua idea di memoria?
Queste tre forme di nazionalità (montenegrina, italiana e americana) compongono e fanno parte del mio tessuto mnestico. Certamente tutti e tre i Paesi sono stati da me introitati secondo diverse tempistiche. Io ritengo che tempo e memoria risiedano sullo stesso livello. E il tempo è un giudice più crudele dell’arte. Il tempo dell’arte è forse connesso più da vicino con il tempo della moda o con quell’arte che diventa eterna.
In mostra presenterò anche un progetto video intitolato Red 1992-2002, che è stato composto nell’arco di dieci anni durante i quali ho ricreato alcune mie primigenie esperienze, memorie sensoriali che sono strettamente connesse con le pratiche culturali della società montenegrina, nella quale sono cresciuto. Questo progetto ha richiesto tempo e mi domando spesso come apparirà ai visitatori, che a loro volta vivono in un contesto eternamente in via di modificazione, anche a causa dell’ambiente tecnologico che detta regole derivanti dalle proprie tempistiche d’obsolescenza.
Quale tipologia di scenario visivo o di atmosfera culturale conferirà al Padiglione del Montenegro la tua mostra?
Secondo molti aspetti, gli artisti oggi sono diventati dei veri fautori di immagini. Artigiani di una certa illusione, accezione che ritengo assolutamente positiva. Seguendo questa linea di ragionamento, vorrei che il visitatore che decidesse di attraversarla, da stanza a stanza, potesse fare esperienza di diversi ambienti che alla fine saranno riconoscibili come una sola entità.
Quali sono stati i tuoi pensieri la prima volta che hai Palazzo Malipiero?
La prima volta che ho visto lo spazio avrei immediatamente voluto riempirlo con echi come “ehi!”, come a ricercare un’energia dello stabile: i visitatori che lo avrebbero attraversato avrebbero fatto semplicemente esperienza del suono e dell’odore dei miei “ehi!”. Ma questo è stato solo un pensiero passeggero. Con il passare del tempo ho realizzato che necessitavo, in qualche modo, di trasformare gli interni del padiglione per lasciare spazio al lavoro, un progetto che andrà ben oltre qualsiasi sensazione immediata.
Quali sono le connessioni con il tema principale proposto da Enwezor?
Il tema è estremamente esteso, ma allo stesso tempo spinge gli artisti a scavare in profondità e a uscire dai propri studi, e forse ad assumersi delle responsabilità all’interno di questa pratica semi-sociale nella quale siamo coinvolti. Negli ultimi anni, anche il mio lavoro sta esplorando costrutti sociali, indagando come questi appaiano differenti, oppure no, se comparati con il passato.
Potresti in ultimo esprimere un augurio, un invito oppure un pensiero che accompagni il visitatore al Padiglione del Montenegro?
Solo una frase, un detto: non c’è rosa senza spine.
Ginevra Bria
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