Biennale di Venezia. L’opinione di Pericle Guaglianone
Pregi e difetti del blues terrigno di Okwui Enwezor. In un’analisi di All the world’s Futures che ne prende in esame in particolare la strutturazione allestitiva.
C’è una scritta all’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini. È un’opera dell’artista newyorchese Glenn Ligon. Recita: “Blues Blood Bruise”. Avrebbe potuto essere questo il titolo della mostra internazionale della 56. Biennale di Venezia. Ne sintetizza infatti ottimamente il concept, oltre a riferire del carattere “musicale” che assume una mostra tanto vasta; dell’importanza cioè che in un tale progetto espositivo ha la strutturazione allestitiva.
All the world’s Futures viene annunciata in questo modo, come un blues avente per tema il sangue. (Con il tema del sangue che qui è da intendersi in riferimento a un’idea di concretezza terrigna della realtà e della storia, non certo in chiave pulp o post-human.) Perciò per capire com’è andata bisogna chiedersi non soltanto se Okwui Enwezor abbia tenuto fede al concept scelto, e se le opere selezionate siano qualitativamente valide, ma anche se si sia riusciti a mettere su un’esposizione dotata del giusto ritmo.
Quanto alla tenuta del concept, nulla da eccepire. All the world’s Futures è mostra tematicamente molto coesa, anzi la compattezza referenziale è il suo maggior pregio. Il riferimento a Karl Marx tiene, nel senso che la mostra è tutta “materialista”, dall’inizio alla fine. È un’apologia del terrigno e del contundente – o se si preferisce, in termini meno estetici, della realtà e della storia – tesa a sbattere in faccia a un’epoca digitale e che si crede “liquida” la concretezza tellurica delle cose del mondo. È una mostra fatta di armi e residui bellici (Abu Bakarr Mansaray, Gonçalo Mabunda, The Propeller Group), formazioni rocciose e distese di terra (Elena Damiani, Rosa Barba, Katharina Grosse, Chantal Akerman), arnesi acuminati (Melvin Edwards, Monica Bonvicini, Adel Abdessemed), lavoro duro (Keith Calhoun & Chandra McCormick), sangue versato (Christian Boltanski, John Akomfrah), visioni di morte (Marlene Dumas, Steve McQueen); una mostra che dà il meglio di sé nei momenti in cui sembra presentare qualcosa di rimosso, e in cui pare funzionare come monito; e che comunque – come lo era anche Il palazzo enciclopedico by Massimiliano Gioni, in cui al posto della Realtà c’erano Sogno e Ossessione – costituisce più un gesto intellettuale specifico, che non un contenitore di opere.
Di documentarismo concernente l’attualità ce n’è poco; al contrario la mostra si compone in massima parte di lavori dotati di una certa carica “astrattizzante” – benché ciò possa risultare paradossale – inerente la materialità del mondo e quella – giocoforza “politica” – dello stare al mondo. Anche il fatto che l’età media degli artisti coinvolti sia parecchio alta per un progetto che reca nel titolo la parola “futuro” ne acuisce l’aspetto di ricognizione appunto “astratta”, fuori dal tempo. La tecnologia è ridotta a zero, o quasi; sono invece un po’ dappertutto il nero del ferro e il rosso del sangue.
Sono questi due elementi a caratterizzare apertura e conclusione di All the world’s Futures, con l’alta scala/gru di Fabio Mauri e con i corpi nudi martoriati, alti anch’essi ma ritratti a testa in giù, di Georg Baselitz. Tra questi due punti estremi si potrebbe tracciare una linea retta, nel senso che dal portone d’ingresso ai Giardini fino alla fine delle Corderie quasi nulla è off topic o di tenore differente. Nel complesso ci sono meno opere ambientali di quanto ci si poteva aspettare; la mostra è tanto focalizzata tematicamente quanto neutra dal punto di vista dei mezzi espressivi. La qualità intrinseca dei lavori selezionati è nel complesso buona; gli acuti sono pochi ma di tonfi non ce n’è: in tal senso si ha persino la sensazione – provata anche nella citata mostra di Gioni – che una qualità generalmente mediana dei lavori sia stata considerata funzionale alla linearità e dunque alla leggibilità del discorso formulato.
Menzione speciale per le giovani talentuosissime Mika Rottenberg e Helen Marten, i cui lavori (un video, una video-installazione e un’installazione in forma di accrochage) sono sensazionali – anche se tra i pochissimi al cospetto dei quali sembra di essere finiti in un’altra mostra.
Quanto al ritmo espositivo, poiché si è scelto – un po’ a sorpresa – di presentare un numero davvero esiguo di grandi installazioni ambientali (se ne contano addirittura due: la cosiddetta Arena destinata alla lettura del Capitale di Marx e l’intervento di Katharina Grosse), per Enwezor si presentava il problema di articolare la mostra avendo a disposizione due sedi espositive assai differenti – il Padiglione Centrale ai Giardini e le Corderie all’Arsenale –, delle quali la seconda costituita – per intero – da una spazialità longitudinale ed epica.
Di fatto la soluzione proposta è il livellamento della mostra, la sua omogeneizzazione, realizzata attenuando i caratteri propri degli ambienti ospitanti i due segmenti di mostra, ovvero in definitiva invertendone i connotati. Si è provato cioè a rendere disteso e avvolgente il ritmo espositivo della sezione ai Giardini, in una sede caratterizzata da una morfologia più spezzettata rispetto a quello delle Corderie, e al contrario a fare di queste ultime un’area allestitivamente angolare e frantumata. Il risultato è convincente solo al Padiglione Centrale. Dove a Enwezor riesce il miracolo di rendere agevole in termini di attraversamento e fruizione una sede planimetricamente complicata, di solito faticosa, in virtù di un strutturazione allestitiva piana e cadenzata, che anima il suo discorso di una latente tensione.
Nella parte alle Corderie le cose funzionano molto meno, per il fatto che la connotazione di questi spazi è molto più forte, e quindi difficile da scalfire. Qui Enwezor ha alzato tramezzi e messo su corridoi – in un’area che è già di suo un (gigantesco) corridoio. Il risultato è una certa costipazione; la mostra non diventa sincopata, come faceva sperare il sottotitolo scelto per questa sezione (il giardino del disordine), ma solo farraginosa. Rimanendo in tema di ritmo e musicalità, si può dire che nella seconda parte di All the world’s Futures il bel blues di Enwezor non si trasforma in un altrettanto buon pezzo di jazz.
Pericle Guaglianone
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