Cherimus: l’immaginario comune approda al Macro di Roma
Incontriamo tre membri di Cherimus, associazione basata in Sardegna che lavora tra Europa e Nordafrica per indagare il rapporto tra l’integrazione dell'identità locale, le piccole realtà territoriali e l'arte contemporanea. Ci raccontano i loro ultimi progetti, fondando le riflessioni su un’aderenza al mondo reale e un agire in interazione diretta con le persone, i luoghi e i processi che in essi si verificano.
Potresti descrivermi l’esperienza della residenza/mostra che avete fatto al Macro?
EMILIANA SABIU: La genesi della residenza al Macro risale a quando, nel 2009, Marco Colombaioni (artista e socio fondatore di Cherimus, scomparso nel 2011), ha dipinto un Gioco dell’Oca popolato da animali in un piccolo paese del nord della Sardegna. L’ha dipinto perché le persone ci entrassero dentro per giocare. Due anni dopo, Cherimus ha curato il Gioco dell’Oca alla Gamec di Bergamo, per la mostra Il Bel Paese dell’Arte: venti artisti hanno partecipato alla realizzazione nel cortile del museo. Gli animali sono diventati molto più grandi e il gioco labirintico. Nel 2014, questo gioco viene incluso nella sezione Esercizi di Rivoluzione, a cura del Maxxi e di Nomas Foundation, nell’ambito della mostra Open Museum Open City curata da Hou Hanrou, in cui gli artisti invitati re-inventavano il significato di alcuni tra i giochi più popolari.
In questa situazione, però, Il gioco dell’Oca doveva essere effimero: non era consentito dipingere. Così Cherimus ha proposto di trasformare gli animali dipinti in abiti colorati, cercando di coinvolgere quante più persone possibile nella realizzazione dei costumi. Per questo il Macro e il Maxxi hanno attivato una convenzione, offrendoci una delle residenze di cui il Macro dispone (appartamento e studio) per consentirci di sviluppare il lavoro.
Com’è andata?
E. S.: Abbiamo collaborato con scuole, associazioni, terzo settore in genere. Ma la risposta più consistente è giunta dai Centri SPRAR – Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati della città e dall’AUSER di Ostia. Lo studio #3 è diventato un laboratorio che ha accolto persone provenienti da tutto il mondo, con cui abbiamo reinventato, cucito e animato i costumi, cercando di rispettare il lavoro di Marco, immaginando come fosse possibile farlo risplendere senza restare legati alla formalizzazione precedente. Abbiamo coinvolto numerosi artisti che hanno inviato i propri costumi direttamente a Roma (Cleo Fariselli, Michele Gabriele, Isa Griese, Derek Di Fabio, Marco Pezzotta, Edna Gee).
Nella seconda parte della residenza abbiamo rielaborato in chiave audio e video i materiali prodotti. Simone Berti ci ha raggiunto a Roma e, insieme, abbiamo realizzato delle clip video in cui gli animali creati all’interno dello spazio museale andavano in giro per la città. Carlo Spiga ha raccontato l’intero percorso in una compilation che mescola tra loro suoni “trovati”, canzoni regalate e composizioni originali. Al termine di tutto il processo abbiamo deciso di creare una galleria di video che raccontasse la trasformazione de Il Gioco dell’Oca di Marco Colombaioni a partire da Valledoria in provincia di Sassari, passando attraverso la Gamec di Bergamo, i laboratori al Macro e i video in giro per la città.
Avete realizzato recentemente il progetto So Close, che legava realtà territoriali distanti e vicine allo stesso tempo. Potresti descrivermi com’è andata e l’approccio critico a due territori in crisi come quello tunisino e iglesiente che avete messo in rete?
E. S.: So Close è un progetto ideato da Cherimus e da Mass’art, uno spazio non profit di Tunisi che si occupa di teatro, ma anche di musica e arte contemporanea. Ci siamo conosciuti grazie a un progetto europeo, Tandem/Shaml, che metteva in contatto organizzazioni culturali europee con organizzazioni culturali provenienti da paesi arabi. Con Mass’art condividiamo il desiderio di utilizzare l’arte all’interno della comunità in cui viviamo. Sia Cherimus che Mass’art lavorano in luoghi periferici: un quartiere popolare di Tunisi per Mass’art, il Sulcis per Cherimus.
Siamo andati a Tunisi e durante due settimane abbiamo realizzato dei laboratori per i bambini del quartiere popolare in cui ha sede Mass’art. Volevano affrontare il tema dell’immigrazione verso l’Europa, cosa non semplice se si considera che i bambini di Tunisi non conoscono neppure l’esistenza del problema. Così abbiamo finto che uno degli artisti invitati fosse un naufrago che non ricordava nulla di sé, e i bambini hanno ricostruito la sua identità e lo hanno accolto. Questo incontro è stato trasformato in una canzone in arabo/inglese, su melodie sardo-tunisine grazie all’aiuto dei quattro musicisti che hanno lavorato con noi: Francesco Medda e Maurizio Marzo per la Sardegna, Aymen ed Amin Makni per la Tunisia. La canzone è poi divenuta un videoclip, le cui immagini provengono tutte dal Sulcis.
Nella seconda parte del progetto gli artisti di Mass’art hanno lavorato a Perdaxius, realizzando laboratori di teatro e aiutandoci nel difficile compito di rafforzare i rapporti con gli abitanti. Per noi è essenziale proporre agli abitanti della periferia di un’isola il confronto con lo sguardo esterno degli artisti: ancora più importante è stato che questo confronto avvenisse con artisti provenienti da Paesi arabi. Il progetto si è concluso con un concerto a Bologna, ma abbiamo intenzione di organizzare un tour del gruppo sardo-tunisino So Close che si è formato nei mesi scorsi.
La vostra pratica artistica si esprime al massimo della potenzialità quando è possibile la stretta relazione con le comunità locali presso le quali intervenite. In un periodo di forte crisi (e critica) del format residenze, quali azioni mettete in campo per innovare linguaggi e metodi dell’arte?
E. S.: Non abbiamo mai ragionato in termini di “format residenza”. Siamo partiti dalla necessità di realizzare opere e progetti in un piccolo paese del Sulcis. È chiaro che per mettere gli artisti nelle condizioni di lavorare, spesso assieme alla comunità locale, occorreva fornire vitto, alloggio e una sistemazione confortevole. Finora il luogo dove gli artisti sono stati ospitati è stato la mia casa. Tutta la mia famiglia (genitori ma anche zii e cugini) si è adoperata per accogliere gli artisti e i curatori che si sono avvicendati negli ultimi anni. Non so se questa si può chiamare una residenza, ma non ci siamo mai posti il problema. Abbiamo invece posto molta attenzione all’accoglienza, abbiamo cercato di creare un clima che favorisse lo scambio di idee e una critica reciproca spesso spietata.
Quest’anno abbiamo approntato un’altra dimora dove gli ospiti potranno risiedere: i primi a inaugurarla sono stati gli artisti e musicisti di Mass’art. Ma non mi sembra che questo abbia modificato il nostro modo di concepire il lavoro in comune. Il mese prossimo invece saremo a Nairobi per collaudare Darajart, un progetto di residenza a Kibera, la più grande baraccopoli dell’africa sub-sahariana, a Nairobi, ideato da Marco Colombaioni. Qui ci appoggeremo alla ONG Amani che si occupa di aiutare i bambini di strada: gli artisti si confronteranno con una realtà molto dura e vivranno all’interno di uno slum. Per usare le parole di Marco, “Darajart è un occhio su una parte di mondo spesso dimenticata o all’apparenza solo molto lontana. Darajart è un ponte senza barriere… collega due continenti. A Voi la conoscenza delle distanze!”. Anche in questo caso non si tratta di una residenza per artisti molto convenzionale…
ALESSANDRA CASADEI: Esiste una progettualità e un modo di agire che viene attuato da Cherimus ogni volta che si trova all’interno di una residenza (e non solo come ospitante). Parlo delle modalità con cui ci si muove, cercando immediatamente, sul posto, un partner che possa diventare una spalla, un collaboratore. Cherimus non punta a parlare con tutti ma ad attivare un dialogo più profondo con qualcuno, un qualcuno che può essere chiunque. Un qualcuno che si propone o che accetta l’invito alla condivisione.
Come declinate il concetto di partecipazione nella vostra progettualità?
MATTEO RUBBI: La partecipazione è l’altro aspetto della condivisione, l’altra faccia della medaglia. La condivisione è il centro dell’esperienza artistica, dell’estetica, quell’esperire insieme, che ha creato nella storia la sensibilità critica e le condizioni per la costruzione di un edificio culturale di cui ancora godiamo i frutti e che trascuriamo, trattiamo come dato per scontato, mortifichiamo. Ricominciare dalla condivisione è il modo, del tutto umano, di fare arte.
La cooperazione internazionale e lo sviluppo locale (rurale) investono i vostri progetti in modo evidente. Quali differenze e quali punti di contatto tra “sud” e “nord” artistico? Avete trovato degli spunti di riflessione interessanti nelle realtà osservate o un “occidentalizzazione” del processo creativo?
M. R.: “Sud” e “nord”, “oriente” e “occidente”, questa visione a blocchi geografici è messa in discussione continuamente dagli artisti e dal loro lavoro. Parlando della nostra esperienza, dalla Scozia all’Egitto, dalla Siria al Marocco, ci sono tantissime realtà che lavorano su un terreno comune: lo sviluppo di un approccio del tutto nuovo all’arte, che riguarda da vicino i luoghi e le persone, senza per questo perdere il rapporto con il mondo, una visione di ampio respiro.
L’esperienza di Chadal (fra Sardegna e Senegal) e successivamente di Cote à Cote (fra Sardegna e Marocco) e ancora di So Close (fra Sardegna e Tunisia) ci ha fatto capire come la geografia, in un mondo sempre più globale, di standard da rispettare, economici e comportamentali, non sia una questione di confini, di latitudini, ma una questione di resistenza, di progettualità apparentemente non funzionanti. Queste “isole di resistenza” sono sparpagliate ovunque, in questo “mondo comune”, che sa cos’è un iPhone, che cosa sono Facebook e Twitter, ma che si trova sempre più impacciato con gli esseri umani. Queste isole sono un approdo per chi vuole sperimentare il linguaggio dell’arte come modo per reinventare un rapporto con il mondo, piccolo e grande che sia, e con le persone. Perché l’arte in fondo è fatta di persone e di condivisione critica.
Giangavino Pazzola
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