Giovanni Boldini mai visto. All’infrarosso
Gianluca Poldi, ricercatore freelance e collaboratore dell’Università di Bergamo, da oltre quindici anni si occupa di diagnostica delle opere d’arte. Una sorta di “chirurgia dell’opera”, che non ricorre però a metodi invasivi, ma ad analisi visive condotte con speciali strumenti capaci di leggere dentro e sotto la materia. Lo abbiamo intervistato dopo alcuni studi condotti sulle opere di Giovanni Boldini.
Quali sono i motivi, professionali e personali, che ti spingono a studiare in senso diagnostico un’opera d’arte piuttosto che un’altra?
Dietro alle superfici delle opere si celano storie avvincenti non solo sul “come” sono state realizzate a livello tecnico, ma anche una serie di interrogativi che è intrigante, talora importante, riuscire a svelare.
Ad esempio?
I motivi per cui si studia un’opera specifica possono essere molto diversi e dipendono da caso a caso: perché l’opera non è ricordata dalle fonti, perché non è presente nell’archivio dell’artista o di attribuzione non certa, o sospetta di falso, perché deve essere restaurata e presenta problemi di degrado specifici. Queste sono generalmente le motivazioni professionali per cui il mio intervento viene richiesto.
E l’interesse personale?
La volontà di approfondire un artista o un periodo che mi interessa. L’importante è comunque che il lavoro venga sempre svolto con metodo e sistematicità: solo cosi si può ottenere un quadro completo dell’opera e aggiungere informazioni utili sull’artista. Mi sono occupato molto di pittura veneta del Quattro e Cinqucento, anche insieme allo storico dell’arte e curatore Giovanni Villa, nell’ambito di un progetto cofinanziato dal MIUR, e senza questo approccio sistematico, con un archivio comparativo di alcune migliaia di opere esaminate, le analisi non sarebbero servite per determinare se un’opera appartenesse alla mano dell’artista o alla sua bottega. In questo mi aiuta molto la mia formazione da fisico, in cui il metodo per arrivare al risultato è un passaggio fondamentale.
Come il tuo lavoro “da fisico” entra a supporto della critica d’arte? I puristi dell’arte accolgono bene i risultati scientifici addotti dalle analisi?
Esistono terreni di confronto tra le analisi sulle opere e quelle della storia dell’arte: gli storici dell’arte più aperti riconoscono gli studi di diagnostica fondati come materiale di ricerca attendibile. Si ragiona su dati comuni: il mio lavoro è importante ai fini scientifici, ma conosco anche i limiti del mio studio e delle stesse strumentazioni che uso. Così dovrebbe essere per tutti i seri esperti del settore.
È fondamentale mantenere la giusta professionalità e serietà nei rispettivi campi di competenza, senza prendere per “oro colato” tutto ciò che sortisce dalle analisi. E tuttavia lo storico dell’arte dovrebbe fare uso dei risultati della ricerca scientifica almeno per poter arrivare a formulare delle domande più circostanziate, in caso manchino risposte effettive. Tutto parte dai termini della questione, dai linguaggi e dall’umiltà da ambo le parti.
Veniamo al lavoro che hai condotto su alcune opere di Giovanni Boldini che sono state esposte nei mesi scorsi alla GAM Manzoni di Milano. Quale è stato il tuo approccio? Cosa volevi scoprire?
Con la GAM Manzoni ho collaborato in diverse occasioni, anche per le analisi condotte su opere di Giovanni Fattori e Guglielmo Ciardi. Di Boldini ho studiato decine di opere databili tra gli Anni Settanta dell’Ottocento e il 1915 circa, limitandomi alla questione del disegno sottostante gli strati di pittura e a quella dei ripensamenti. Per capire se e come disegnava sopra la preparazione bianca prima di mettere il colore, e se quelle linee e segni sovente presenti nei suoi sfondi siano frutto e residuo di prime versioni modificate e però volutamente mantenute in parte visibili per rendere più vibrante la composizione.
Dalle analisi in infrarosso, le riflettografie, è emerso come questa ipotesi sia in vari casi corretta: Boldini sovente lascia a vista parti di primi abbozzi a colore, quasi “linee di forza” in grado di sottolineare posizioni, direzioni e movimenti, in una sorta di non-finito che asseconda o genera il dialogo tra figure e sfondo. Ho lavorato con un paio di apparecchiature diverse che permettono alla radiazione infrarossa di andare più o meno in profondità. Ne sono emerse considerazioni interessanti.
Facci qualche esempio specifico.
Nella Donna sul divano, piccola tavola trovata nello studio del pittore dopo la sua morte, si nota una figura sdraiata sul divano, o forse, se letta in verticale, appoggiata a un sostegno. Guardando le linee e le forme attorno alla figura, alcune si riferiscono a una figura di profilo con un cappello e, se si osserva ancora più nel dettaglio, si può scorgere un profilo di braccio. E una o due piccole figure in nero compaiono sullo sfondo, a sinistra: probabilmente era all’origine una scena all’aperto, appena abbozzata.
In questo caso si capisce come la versione finale sia stata dipinta sopra altre stesure precedenti di cui Boldini però non cancella totalmente gli effetti, ma li mantiene per creare più movimento allo sfondo della nuova figura, ovvero quella che vediamo a occhio nudo e che rappresenta il soggetto finale del quadro. In base alle analisi, possiamo addirittura osservare due versioni prima di quella definitiva: ruotando di 90 gradi il quadro, dietro la donna se ne intravvede un’altra, in piedi, capelli rossicci e un braccio in avanti.
Quando queste stesure precedenti possono essere ricondotte a errori o a ripensamenti e quando a una precisa volontà dell’artista di riutilizzarle come sfondo?
Boldini è, come noto, un disegnatore compulsivo e straordinario, sempre con il lapis in mano. E come queste analisi dimostrano, anche sulle tele e tavole egli disegna, con funzioni e tipologie del tracciato sottostante, a matita o a pennello, variabili da dipinto a dipinto e di epoca in epoca. Di rado si rilevano casi di errori, come una prospettiva di un braccio poco riuscita: più spesso si tratta di studi in corso d’opera e non di rado la volontà dell’artista di cambiare soggetto, più che di correggerlo. Ad esempio, sotto il Nudo sdraiato con calze nere s’intravede uno studio di architettura, a matita, probabilmente la strombatura di un portale. Si tratta di un riutilizzo di una tavola pensata con tutt’altro soggetto, quindi, e forse semplicemente usata nell’urgenza di fissare un’immagine architettonica, tema per lui non nuovo.
Boldini è sempre molto attento all’inquadratura dei soggetti, alle diagonali e alle linee oblique, che talvolta inserisce di proposito in fase finale per movimentare la composizione e rendere l’effetto come d’istantanea, d’attimo. Questa struttura cela a volte varianti del soggetto e del fondale (elementi quali schienali di sedie, curve di specchi), alla ricerca del punto di vista e della forma migliori, e non di rado una teoria di linee oblique ed elementi circolari più volte ripassati, in genere a grafite.
C’è un’opera in particolare in cui dalle analisi si evince questo particolare disegno sottostante?
Prendiamo in considerazione Innamorati al caffè, del 1887 circa, di sensibilità impressionista: è la raffigurazione dell’interno di un locale parigino, con le tipiche atmosfere dell’epoca. Sotto la pittura si scopre che la struttura grafica è dominata da una serie di ovali, in un gesto fluido, libero. In corrispondenza delle forme egli indica solo la struttura degli ingombri, una vera e propria architettura dello spazio fondata sul gesto grafico. Qui il cilindro, qui il volto, in questo spazio e in questa direzione. Una costruzione preparatoria alquanto insolita, da cui poi l’artista sbozza le figure e gli elementi della composizione direttamente col colore, a pennello. Impressionante.
Quindi esiste una specie di studio della massa nello spazio condotto attraverso il disegno di figure circolari… Hai potuto constatare questo modus operandi anche in altre opere?
Sì, ad esempio in alcune vedute di Venezia, soggetto cui ha saputo conferire un incisivo dinamismo. Spesso nelle vedute compaiono dei pali che tagliano nettamente visuale e composizione in un modo del tutto moderno e rivoluzionario, come espedienti per creare nuove diagonali e possibilità di lettura.
In riflettografia si può vedere come spesso anche gondole e ponti siano costruiti con la tecnica dei segni circolari, quasi centrifughi, lavorando sulla determinazione dei pesi e degli ingombri: più che la forma, a Boldini interessa dove andare a collocare la massa. E rende dinamica un’opera partendo dallo studio delle masse, non dall’inquadratura classica e da “prospettive” geometriche.
Negli studi delle cattedrali romaniche francesi, si individua una struttura più articolata, che tuttavia in poche pennellate riesce a rendere l’architettura, ancora sovente utilizzando tracciati circolari. Penso ad esempio all’interno della Cattedrale di Bordeaux, del 1913-14, dove si vedono le donne con i loro cappelli e le loro vesti che corrono e spostano le sedie, lasciando come delle scie al loro passaggio. L’infrarosso qui manifesta la grande libertà del disegno preparatorio: pur trattandosi dell’interno di una chiesa, l’artista non utilizza una struttura di linee precise e definite, ma si prende la libertà di gestire in modo molto più ampio e libero la composizione.
Boldini era sicuramente veloce nella stesura pittorica, almeno dagli Anni Ottanta spesso noncurante dei tempi di asciugatura, delle eccessive sovrapposizioni e delle colature del colore, che diventavano parte dell’effetto finale. Quindi zone di luce e zone d’ombra, sfumature e dettagli, vengono resi in poco tempo e con notevole decisone. Così, la gestualità del disegno viene completata dalla massa pittorica con una maestria e impetuosità uniche.
Serena Vanzaghi
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