Inpratica. Taranto Opera Viva: taccuino critico (III)
Giunge al termine la pubblicazione di questo taccuino critico in tre parti, che ha accompagnato il progetto di Alessandro Bulgini a Taranto. Ovvero sull’arte come coinvolgimento, partecipazione, attivazione attraverso il rito.
2 APRILE – GIORNO SEDICI
Perché l’arte contemporanea recuperi la dimensione del coinvolgimento, della partecipazione, dell’attivazione attraverso il rito: una dimensione dismessa di fatto da almeno tre secoli, ma che l’arte possedeva in pieno nella sua versione prerinascimentale, poi rinascimentale e controriformista, e persino in quella rivoluzionaria e romantica.
Occorre lavorare da una parte sulla “deistituzionalizzazione” dell’oggetto-opera (sulla sua riduzione programmatica a non-opera), dall’altra sulla “sacralizzazione” e sulla ritualizzazione del processo creativo, e soprattutto della sua funzione. Si tratta di una attualizzazione delle tecniche socializzate e tradizionalizzate di cui parlava De Martino in Sud e magia: d’altra parte, mai forse come oggi siamo in presenza di crisi massicce di “miseria psicologica”, che richiedono la protezione urgente di queste tecniche.
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E, forse, ciò che ci occorre anche è assumere il punto di vista speculare, altro: guardare le cose sempre dalla parte della vita che abbiamo di fronte, farci insegnare da essa, e dismettere per quanto possibile ogni tentazione didattica o declamatoria. “Partecipare” vuol dire probabilmente questa immersione, questa dismissione di ciò che sapevamo a favore di una lezione più pura e profonda che viene dalle strade, da quest’isola. (Che sempre più pare funzionare, sul serio, come “la Zona” di Stalker, il capolavoro di Andrej Tarkovsky).
Decoro urbano sul relitto in Mar Piccolo è un’opera simbolo di questo presente-futuro, e di questa arte realista, urbana. C’è la decorazione – il piacere dell’arte e della pittura – e l’attenzione sociale, la riqualificazione (vera e non retorica, profonda e non di facciata) di un luogo abbandonato. La bellezza autentica (e autenticamente italiana…) è questa fusione di decadenza e di pulizia, di rovina e armonia.
7 APRILE – GIORNO VENTUNO
Oggi è stato il giorno della conversazione da Artcore a Bari, organizzato insieme a Mara e a Roberta.
Mentre, sempre in piazza S. Giuseppe, aspettavamo Gian Maria e Lucrezia, abbiamo passato un po’ di tempo a parlare con i due ragazzi che lavorano lì. E Felice mi ha detto qualcosa che lì per lì mi è sembrato tremendo, soprattutto in bocca a un ventenne (e indubbiamente lo è), ma poi non mi ha più abbandonato, e non ci abbandonerà più. Io o Alessandro gli avevamo chiesto qualcosa riguardo a come vede il suo futuro a Taranto, e lui ha risposto in dialetto: “Quale futuro… Quando sarò morto, sarà come non aver vissuto.” Bum.
Questa frase atroce, questo pensiero spaventoso incistato lì, stamattina, in quella piazza e su quelle sedie di legno, è in realtà un regalo incredibilmente prezioso: un’intera sensibilità che, pur nella sua negatività, contiene potenzialità incredibili. Quest’amarezza tipicamente italiana e meridionale – ripeto, elaborata spontaneamente da un ventenne, sulla base di un’esperienza che supera già quella di tutti i settantenni che conosco – lascia intravedere uno stato d’animo, una condizione, che tutta l’arte e la critica dovrebbe inseguire. Uno stato al di là. Non così diverso poi, se ci pensiamo bene, sia dal grunge che dalla Metafisica. Una condizione sfuggente, inafferrabile, evanescente, spettrale, pesantissima, e proprio per questo estremamente importante.
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Durante la conversazione, partecipata, convulsa, interessante, l’aspetto più affascinante per me era considerare la condizione di Alessandro rispetto ad almeno metà del pubblico: era quasi precisamente quella di un reduce dal Vietnam, quella che io finora conoscevo solo mediatamente, quella di Rambo e di Dispatches di Michael Herr. La condizione, cioè, di colui che cerca di comunicare una sua esperienza e una sua conoscenza a un mondo completamente diverso, ma non ci riesce se non a sprazzi; e io e Gian Maria cercavamo di “tradurre”, per così dire, ma anche in questo caso era un’impresa difficoltosa e accidentata. (Nel mentre, Alessandro si tratteneva e decorava le cozze nel Moplen: il reduce perfetto.)
Non per incapacità tecnica, nella produzione o nella ricezione del messaggio; ma proprio perché tra questi due mondi, la realtà e il sistema-arte, l’abisso linguistico è talmente profondo, la distanza è così grande, che persino gli stessi termini non individuano più i medesimi concetti. L’incomprensione è di natura linguistica: il linguaggio, che era uno, si è scisso e non ci si capisce perché costantemente si trasporta un senso, il senso all’interno di un terreno che non è il suo. L’arte, come termine e come concetto e come pratica e come esperienza, è naturalmente al centro di questo conflitto cognitivo.
Mancava, in effetti, lo sceriffo ciccione e cattivissimo: ma non ho dubbi che prima o poi lo troveremo.
10 APRILE – GIORNO VENTIQUATTRO
Sul tetto, ore 12.30: “Tamburi per Tamburi”. Sin dall’inizio è un pezzo pinkfloydiano, alla Live at Pompeii. La vita contro la morte; le forze vitali contro le forze mortali.
(Tamburi reali per Tamburi feriti. Un quartiere ferito a morte.)
Un crescendo di vita, di energia, di energia vitale: forze sotterranee: opera viva.
Il fumogeno arancione.
“Un orrore così profondo può essere frenato solo da un rito” (Sarah Kane, Febbre, 1998).
Dal sonno, dal coma, il risveglio.
Il coma è diverso dalla trance: differente stato di esistenza in cui scivolare, costruendolo.
RITMO / SACRO / RITO / MITO
Attivazione; processo; atto; azione; operazione: uscire dalla mera rappresentazione. Connettere la vita all’arte, alla forma espressiva. La realtà a noi stessi. E la famiglia affacciata al balcone, padre madre figlia, chiede con il classico gesto della mano e di tutto il braccio, “ma che cos’è?”. Eppure, stanno tutti fissi a sentire e a guardare, curiosi, fiduciosi.
La faccia di Alessandro, avvolta completamente dal fumo arancione. Perfettamente soddisfatto sorride.
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Nella cattedrale di San Cataldo, sul pavimento i frammenti del mosaico centrale (1160) realizzato da Petroius rappresentano la leggenda del volo di Alessandro Magno. Un viaggio immaginario, in cui Alessandro ascende al cielo su un velivolo (un trono, un cesto o un paniere nella tradizione occidentale; un cocchio o una biga in quella alessandrina) trainato da due grifoni. Secondo alcuni questa narrazione visiva è un’allegoria della superbia, un’ammonizione; secondo altri – come lo studioso Victor Schmidt – rappresenta invece la salvezza dell’anima e l’aspirazione dell’uomo al Paradiso: sarebbe dunque un’allegoria della forza.
GHOST TRACK – UN GIORNO
Attraversando il Ponte di Pietra con In Bloom dei Nirvana negli auricolari, il sole di mattina presto sul mare e sulla pensilina liberty dopo tutto questo maltempo – l’omino rosso sbuca in fondo alla strada, dall’angolo di piazza Fontana.
Christian Caliandro
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