“Il futuro: un mondo buio, desolato. Un mondo di guerra, di sofferenza, di sconfitta. Da entrambe le parti” (Bryan Singer, X-Men: Days of Future Past, 2014). Manca la percezione stessa dell’altro. È assente ormai. Questi esseri umani di adesso non ti rispondono neanche più. Non ti badano più. Figuriamoci aiutarti, sostenerti, incoraggiarti, offrirti il pranzo o la cena.
Quello che in effetti ci hanno fatto. Segregazione. Ci hanno rinchiusi in una forma di vita congelata. Bloccati all’interno di una parodia. La parodia è quella di una società che imprigiona i propri figli: sfruttandoli, divorandoli. Chi va all’esterno, chi fuoriesce è “cosmopolita”, certo: impara diversi modi di vita, impara che fuori si mangiano tante cose buone e che, forse, ti danno anche un lavoro a condizioni persino vantaggiose. Ma dentro? Dentro, dentro questo Paese, si è creato – o c’è sempre stato… – un nucleo oscuro pulsante. È come parlare una lingua diversa da tutte le altre. Oppure, meglio ancora: come respirare un tipo di aria diversa. Nella sua qualità, nella sua pesantezza, nella sua temperatura. E allora, hai voglia ad essere cinico. Hai voglia a rendere questo stato quasi una moda, prendendo il buono che c’è e ridicolizzando il resto, proponendo un modello ipercolto (ma in fondo perdente) e raccattando, componendo, assemblando frammenti di privilegio. La verità è che, se sei del tutto onesto con te stesso, questo Paese ha fatto di te un disadattato. Uno cioè che non è proprio adatto a vivere fuori o in altro modo. Uno a cui sembra tutto sommato di aver scoperto che cosa c’è sotto questa forma sottile e soffocante di segregazione, sotto questa pellicola, e a cui sembra di aver scoperto che la segregazione potrebbe essere ovunque: “Viviamo in un mondo fantasmico con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza. Questo benevolo plurale non mi farà più d’uopo inoltre: fummo, siamo e saremo in pochissimi a risentire la sostanza piena della vita. […] Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l’essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima” (Alberto Savinio, Anadiomènon. Principi di valutazione dell’arte contemporanea, “Valori Plastici”, 1919, n. 4-5).
Siamo tutti scappati: stiamo tutti scappando. E in questa fuga per la salvezza e per la sopravvivenza, ciò che si perde è precisamente la complessità. Cioè noi, fondamentalmente, pur di sopravvivere e di scavare una via d’uscita, una exit strategy, siamo tutto sommato disposti a rinunciare alla nostra originalità, o a ridurla in macchietta (che fa lo stesso). “Come facciamo a sapere dove stiamo andando, se non sappiamo neanche dove cazzo siamo?”, chiede giustamente Eric-Guy Pierce al suo svitato compagno di strada Rey-Robert Pattinson nel bellissimo The Rover (David Michôd 2014). Ci troviamo costantemente a porci questa domanda, in termini politici, sociale e culturali. Possiamo raccogliere tutti i dati possibili sul passato recente, ricostruirlo nelle maniere più raffinate ed esaustive, rappresentarlo con le immagini più curiose e rare: ma lo stiamo sempre e soltanto penetrando “archeologicamente”. E non lo conosciamo mai dall’interno – come parte di noi stessi, e soprattutto come origine possibile e reale di un altro, diverso presente. Questo passato così brillantemente descritto, così vividamente proiettato, non intrattiene praticamente alcun rapporto con noi, con chi siamo, con l’epoca che viviamo e con le sue spiegazioni. È una terra di morti.
Storia dunque come mera elencazione di fatti, dati, informazioni, figure, immagini, autori, opere, titoli, pratiche, istituzioni, testi, fenomeni, movimenti, istanze, dichiarazioni, pensieri. Senza visione unificatrice, né interpretazione, né correlazione e connessione tra cause ed effetti, tra motivazioni e risultati, tra forze che muovono il tempo e manifestazioni. Senza scavo, né carotaggio, né critica. Eppure, non esiste storia senza critica, così come non esiste critica senza storia: la storia vera è critica – coincide con essa. Allo stesso modo, una società che non vive nel e del suo immaginario culturale non è già più una società: è divenuta qualcos’altro.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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