Padiglione Italia. Intervista con Giuseppe Caccavale
Nato ad Afragola nel 1960, Giuseppe Caccavale è uno dei quindici artisti invitati da Vincenzo Trione per il Padiglione Italia alla 56. Biennale di Venezia. L’abbiamo intervistato per farci raccontare il suo percorso e la sua poetica.
Incontriamo Giuseppe Caccavale a Parigi, nell’aula-atelier dell’École Nationale Superieure des Arts Décoratifs, dove insegna l’affresco, il graffito e il mosaico. L’attenzione è immediatamente rapita da una lunga parete, che appare come tappezzata da strati su strati di opere murali: sono i tanti progetti realizzati assieme ai suoi studenti nel corso degli anni e che fanno di quel muro una sorta di grande quaderno collettivo, dove l’esercizio si mischia al saggio, il maestro lavora con l’allievo e, soprattutto, dove l’immagine incontra la parola. Fra le tante qualità del percorso di Caccavale, ve n’è una cui l’artista sembra oggi dedicare una ricerca e una cura del tutto particolari: è proprio l’incontro tra immagine e parola, di per sé ricco in echi e suggestioni, e tanto più perché prende forma su muro, superficie arcaica e all’origine stessa delle arti visive.
Giuseppe, il tuo è un profilo che sembra particolarmente coerente con la missione di Codice Italia, ricamata attorno al Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg e al concetto di storia veicolato dalle immagini dialettiche di Walter Benjamin. La riscoperta del muro, la parola che si fa figura, l’immagine presente che, “parlando”, svela il passato. Ma questo è un punto di arrivo. Puoi raccontarci da dove provieni, qual è il cammino che ti ha portato fin qui?
Mi piace dire sempre che sono cresciuto nelle mani degli altri, anzi, nella lingua degli altri. C’è un’espressione di Paul Celan, “avere radici nell’aria”, che rispecchia molto bene questo mio stato d’animo. Sono esattamente vent’anni che mi dedico allo studio delle arti murali, e ho viaggiato molto per incontrare le pareti che mi interessavano. Quando sono stato sul monte Athos, per studiare l’affresco greco nel Monastero di Stavronikita e vedere da vicino il Katholicon dipinto da Teofane il Greco, mentre osservavo i suoi affreschi nella trapeza che dà sul mare Egeo, un monaco magrissimo mi tese una fetta di pane e un bicchiere di vino rosso fatto da loro. Per me è stata una compenetrazione di tempi.
Perché questa fascinazione per la arti murali?
Scelsi di studiare e praticare queste discipline perché dentro di esse è macerata la grammatica della natura e del sacro. Aggiungo che, sin dai primi anni del mio percorso d’artista, è germogliata in me una volontà di costante e rinnovato sradicamento: pur avendo sempre provato un sentimento di appartenenza in ogni luogo in cui ho soggiornato, non ho mai avvertito la necessità di appartenere a un luogo in particolare. Ciò ha fatto sì che le idee non si accanissero in me: non ho mai veramente sentito il bisogno di avere qualcosa da dire…
… suona quasi come un anti-statement, questo. Un artista di solito ha sempre qualcosa da dire, o per lo meno sostiene di avere qualcosa da dire.
Allontanarsi da un luogo è un po’ come scappare dalla convinzione di dover sempre avere qualcosa da dire. Ecco, io mi sono sempre sorpreso a voler fare un lavoro di pulizia delle mie convinzioni: nell’atto pratico, una pulizia del gesto acquisito, una pulizia dall’abitudine. Cancellarsi, portare ascolto verso l’altro, rigenerare la propria disponibilità verso il quotidiano: anche in questo trovo sacralità. Non aver qualcosa da dire per me è un traguardo, e questo traguardo si raggiunge attraverso lo studio.
Lo studio, quindi, più che un mezzo per arricchire se stessi, è uno strumento di pulizia?
Lo studio è un viatico che permette di allontanarsi dalle abitudini: è l’opportunità che l’artista ha per separarsi dalla sua riconoscibilità originaria. Tale riconoscibilità è data da certi automatismi che vengono a crearsi nel tempo, per questo parlo di pulizia del gesto. In tal senso il 1990 è stato uno spartiacque nella mia carriera. In quel periodo ho abitato a Fox-Amphoux, un paesino del sud della Francia, in una casa dove aveva vissuto anche Bram van Velde, un pittore olandese divenuto famoso negli Anni Sessanta.
Ho avuto modo di conoscere la sua opera, ho scoperto che era un amico di Samuel Beckett e che dipingeva solo tra la primavera e l’estate: mai in autunno o in inverno, non c’era luce a sufficienza. Il rigore di van Velde per l’elemento naturale ha probabilmente innescato il mio bisogno di disarmo da ciò che avevo acquisito sino ad allora. Se prima dipingevo a olio e su tela, ora mi ero spostato verso l’affresco e il graffito: non le considero tecniche, ma discipline, perché obbligano a seguire dei codici e delle regole. A questo punto per me la figura non poteva più apparire, se non attraverso una sintesi più arcaica degli elementi naturali: l’acqua, la sabbia, la calce. Un bisogno estremo, necessario, di cominciare daccapo.
Il concetto di “studio” sembra coincidere con la filosofia del padiglione elaborato da Vincenzo Trione. Ciò potrebbe anche dirsi, tuttavia, per il concetto di “riconoscibilità” che si desume da parole come memoria e codice, dal pensiero di Warburg, dal fatto di stabilire un cammino tra tre odierne generazioni di artisti italiani e un passato che va da Pontormo a Pasolini. Ecco, tu sembri invece allontanarti dall’idea di riconoscibilità.
Quando parlo di riconoscibilità, non penso soltanto a come un determinato artista riconosce se stesso, ma anche al modo attraverso cui un sistema delle arti è abituato a riconoscere un determinato artista. Mettendo nell’ombra le mie origini ho potuto impregnarmi di un gesto che tornasse a essere ingenuo, che si allontanasse in modo naturale dal peso di tutto ciò che sapevo per abitudine. Con “studio” non intendo solo l’aver aperto i libri o aver cercato tutte le opere che mi interessavano: intendo soprattutto l’aver tradotto una mia personale storia dell’arte, dove le “opere” non provengono esclusivamente dal dominio delle arti plastiche, e dove io mi curo soprattutto di spostare i saperi.
Per esempio, il Neorealismo resta ad oggi l’ultimo grande momento creativo di casa nostra. Per questo una parte delle mie ricerche comincia da lì, e dall’idea che Roberto Rossellini sia il nostro Cimabue, il Cimabue di noi contemporanei. Le arti migrano, la pittura da un certo momento in poi è diventata cinema, e penso che oggi sia inutile cercare la pittura nella pittura. I grandi cicli di affreschi si sono tramutati in film: non faccio nessuna differenza tra un fotogramma filmico e un lacerto cimabuesco, cavalliniano, masolinesco. Come non paragonare la finezza estetica di Valerio Zurlini ai registri di Piero della Francesca? Questo vuol dire studiare, tradurre una propria storia dell’arte: un artista ha oggi la responsabilità di spostare le idee, di rendere vicine le lontananze.
Che posto occuperà la parola-immagine in questo Padiglione Italia, nella traccia individuata della storia e della memoria?
L’incontro tra la poesia e il linguaggio del gesto, cioè il disegno, è nato negli ultimi anni delle mie ricerche. Ogni lettera una foglia, ogni ramo un verso, ogni albero una poesia, col libro che ha funzione di paesaggio. Come artista, sento di non poter più salvare la natura: la distruzione di quest’ultima temo stia andando a buon fine. Al contrario, mi piacerebbe fare ancora qualcosa per salvare il linguaggio: la figura della lettera, che ha un’importanza pari a quella del tono di voce nella poesia recitata.
L’invito di Vincenzo Trione mi è arrivato in un momento grave del nostro Paese, dove tutto ha bisogno di rigrammaticarsi e ritrovare un significato. Disegno e parola si incontrano amichevolmente nelle mie opere, nessuna aggredisce l’altra, entrambe contribuiscono in egual modo alla costruzione di un senso, di un significato. Iosif Brodskij diceva che quando si è esuli si comprende più velocemente la storia del proprio paese: io ho imparato a conoscere l’Italia standone lontano. Come è noto, tutte le opere del Padiglione sono inedite ed esclusivamente concepite per Codice Italia. Il mio progetto però è fatto della mia erranza e della stratificazione delle mie esperienze, verrà eseguito in Biennale ma ha visto luce in più luoghi. Tutto questo per me è storia, ed è memoria.
Vittorio Parisi
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