Rirkrit Tiravanija secondo Francesco Bonami
L’ultimo libro di Francesco Bonami per Electa non è una sequenza di stroncature come può sembrare. Al suo interno ci sono anche veri e propri atti d’amore. Come questo per il thailandese Rirkrit Tiravanija, che ritrovate anche all’Arsenale di Venezia. Nota bene: i grassetti sono nostri.
Non si può definire che “il migliore”, Rirkrit Tiravanija. Thailandese, ma nato in Argentina e cresciuto artisticamente a New York, è stato fra i primi a trasformare il cibo, o gli avanzi di questo, in arte. Come il cibo macrobiotico, non importa quello che fa perché qualunque cosa faccia fa bene e ci fa stare contenti. L’ho conosciuto a New York agli inizi degli anni novanta, quando alla 303 Gallery, che a quei tempi era a Soho, trasformò lo spazio in un ristorante da campo dove lui cucinava il pad see ew, gli spaghetti thailandesi. Si andava alla mostra e, non avendo il becco di un quattrino, si mangiava gratis. Ma non solo. S’incontravano altri amici, altri artisti, altri curatori. L’arte di Rirkrit era, ed è ancora, un pretesto per stare insieme.
Oggi che sono tutti assatanati di potere, soldini e visibilità mediatica un artista così verrebbe impiccato alla finestra del bagno. Non lui. Ancora oggi, quando lo incontro a New York o in altri luoghi sparsi per il mondo, dove lui girovaga fra un progetto e l’altro, fra una lezione all’università e l’altra, vederlo è una ventata di gioia ed entusiasmo. Le sue opere sono sempre un po’ precarie: cucine, stanze, mobilio e altre cose del vivere comune che la sua immaginazione trasforma, o meglio vorrebbe trasformare, in arte con la A maiuscola. Rirkrit è forse l’artista che più di ogni altro incarna l’Utopia dell’arte. Duchamp diceva che la vera arte non sta nei musei. Passeggiare, fumare un sigaro, giocare a scacchi sono i veri capolavori. Rirkrit ne è così convinto che sogna di trascinare la vita dentro al museo, non il museo dentro alla vita.
In questo è un ammirevole illuso. Se i musei si trasformassero completamente in un ritrovo del dopolavoro, Rirkrit smetterebbe di esistere. Ma non si può negare che dopo aver visto venti Picasso, quattro Rothko, due Ryman, un Merz e un Pistoletto ritrovarsi in una stanza nella quale l’opera consiste in tre divani arancione dove spaparanzarsi con qualcuno che ti prepara il tè non è affatto male. Rirkrit è questo, una boccata d’aria fresca nella storia dell’arte. Proprio come la cucina macrobiotica, che ci fa capire, togliendocela, quanto buona, eppure non indispensabile, sia una bella bistecca. Rirkrit ci aiuta a non considerare indispensabile l’arte, di qualsiasi tipo e di qualsiasi epoca essa sia. D’altronde non è che i bookshop o le caffetterie dei musei siano molto diversi dall’arte di Tiravanija, solo che lì il museo ci guadagna. Ma lo scopo è lo stesso. Offrire ristoro non solo fisico ma anche mentale allo spettatore che, sorseggiando un caffè, può riflettere sulla sua esperienza artistica, godersi, o dimenticare, il capolavoro preferito che galleggia nei propri pensieri. L’arte è esperienza e Rirkrit dell’esperienza ha fatto la sua arte. Togliere Rirkrit dall’arte contemporanea lascerebbe un buco e un vuoto più grande di quello lasciato dai Buddha di Bamiyan. La storia dell’arte è fatta anche di eroiche e fondamentali cesure. Duchamp e Manzoni ne sono due esempi. Tiravanija un altro.
Francesco Bonami
Francesco Bonami – Il Bonami dell’arte. Incontri ravvicinati della giungla contemporanea
Electa, Milano 2015
Pagg. 125, € 12,90
ISBN 9788837099053
www.electaweb.com
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati