Se la nuova Fondazione Prada è il vero Padiglione Italia
Dov’è il vero Padiglione Italia? È quello che sta a Expo? Oppure quell’altro al fondo dell’Arsenale, alla Biennale di Venezia. Secondo Michele Dantini c’è una terza via: il Padiglione Italia è quello curato da Salvatore Settis per Prada, fra la nuova sede milanese e quella affacciata sul Canal Grande.
Una cosa è chiara come il sole di questi radiosi giorni di maggio: per i visitatori italiani e stranieri in movimento tra Milano e Venezia nei giorni dell’opening della Biennale, il vero e unico Padiglione Italia si è aperto a Milano, alla Fondazione Prada. Possiamo discutere finché vogliamo pro et contra la vague archeologica e gli appelli al classico lanciati da Serial Classic (e da Portable Classic a Ca’ Corner della Regina a Venezia). Ma non è questo il punto. È invece incontestabile che, a fronte della fragilità (per dir così) del Padiglione Italia alla Biennale, l’impegno economico profuso da Prada nell’allestimento della nuova sede milanese della Fondazione o la competenza scientifica di uno studioso di reputazione internazionale come Salvatore Settis e infine la qualità delle opere d’arte contemporanea dispiegate attorno a Serial Classic fanno sì che solo a Milano si dica in modo chiaro e accurato, condivisibile o meno, cosa siamo e cosa vorremmo essere.
È da qualche tempo, in linea con la generale flessione di autorevolezza del contemporaneo, che la generazione degli artisti italiani trenta-quarantenni accenna a un ritrovato interesse per il “classico”, qualsiasi cosa si voglia intendere per esso – morfologie, certo, eredità culturale, “mestieri” o fascinazione per il marmo e altri materiali “nobili” e durevoli (l’ho segnalato qui). La difficoltà di caratterizzarsi sul piano internazionale e lo scarso rilievo pubblico dell’arte contemporanea in Italia spingono fatalmente a rivendicare una genealogia, per di più celebre e acclamata ovunque (ne ho scritto qualche tempo fa su Artribune, qui). Certo la virata impressa da alcuni anni alla propria attività dall’artista di riferimento per Prada, Fancesco Vezzoli, non è stata irrilevante per spiegare come si arrivi a Serial Classic, per vie contemporaneistiche e in modo del tutto indipendente dallo specifico archeologico (ma chi è Prada e chi è Vezzoli, oggi? Tra i due sembra esistere un sagace gioco delle parti). Così come pungenti polemiche trascorse tra Miuccia Prada e gli storici dell’arte più intransigenti, proprio come Settis, costituiscono la premessa del riavvicinamento attuale, vantaggioso per ciascuno dei due contendenti e orientato, da parte di Prada, al corteggiamento dell’eredità culturale in prospettive anche industriali (di tutto questo ho scritto qui).
Dunque, cosa siamo – stando almeno a Serial Classic? E quale significato attribuiamo al termine “classico”? Nutrita di prestiti internazionali e pronta a sfoggiare il mirabile torso (con mano) di una Penelope proveniente dal Museo nazionale di Teheran, databile al quinto secolo a. C. e mai uscita prima dal museo iraniano, la mostra settisiana ruota attorno al tema della vulnerabilità dell’Antico, giunto a noi in modi fortuiti e spettrali, attraverso duplicazioni, duplicazioni di duplicazioni e frammenti. Si apre con una teca che accoglie gli scarni resti delle innumerevoli sculture in bronzo che già ornavano Olimpia, la città delle competizioni panelleniche; sculture che furono fuse, in epoca successiva, per trarne armi e altro. E prosegue giustapponendo copie difformi e tradizioni divergenti della stessa immagine-Madre. In modo relativamente inatteso, non convenzionalmente modernista, “classica” si rivela l’opera d’arte che riesce a stabilire una propria popolarità e diffusione, che appare più replicata e si trasforma in un luogo comune figurativo. “L’arte classica ha questo di supremamente originale”, scrive Settis in catalogo. “Per generazioni, per secoli ha concentrato ogni energia nella creazione di modelli ripetibili e capaci di incarnare valori collettivi”.
La reversibilità del patrimonio, attestata storicamente, smentisce la retorica della “bellezza che salverà il mondo”, sfoggiata anche dal Padiglione Italia di Expo 2015: Serial Classic è non a caso caratterizzato dalle tante grafiche di originali greci perduti, conosciuti solo attraverso copie e descrizioni (dettaglio, quest’ultimo, che appare così rilevante al critico e allo storico dell’arte). Quali responsabilità, quale cura dobbiamo all’eredità culturale perché questa non scompaia definitivamente, o si ritragga e aleggi nelle vesti lacere e petulanti del fantasma metafisico? L’implicazione di Serial Classic è paradossale, per niente antiquaria o nostalgica: l’Antico esiste solo attraverso le sue repliche, dunque nell’immaginazione più o meno potente di chi, sempre di nuovo nostro contemporaneo, si prodiga per il ritorno del demone della fierezza, del coraggio, della misura e della grazia.
Per l’apertura della Fondazione non ci si è affidati a un curatore di professione: anche questa circostanza merita di essere segnalata. È probabile (forse persino auspicabile) che la Fondazione si orienti in futuro a un maggiore pluralismo e cerchi il contributo di ricercatori innovativi. La sola competenza curatoriale oggi non è sufficientemente specifica né coalizza attorno a sé discipline. Esiste un messaggio in bottiglia affidato alle diverse mostre disposte a corona di Serial Classic (in particolare a In Part)? Esiste, ed è graziosamente cultuale. Attraverso Vezzoli e i predecessori Paolini, Pascali, Manzoni e Fontana il nuovo museo milanese suggerisce una possibile “via italiana” alla contemporaneità, dialogante ma non genuflessa: ne sono (o ne sarebbero) tratti distintivi la persistente fascinazione per l’immagine e la coinvolgente, istrionica attitudine alla sprezzatura.
Michele Dantini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati