Urban Mapping e pratiche performative
Tre esperienze diverse, quelle di Michele Di Stefano, Alessandro Carboni e Alessio Mazzaro. Ma accomunate dalla volontà attiva e performativa di interpretare lo spazio urbano. Con mappature che hanno al proprio centro il corpo.
Quando le pratiche performative ridefiniscono la relazione con lo spazio urbano e reinventano il quotidiano, quando traiettorie corpografiche rimettono in gioco la prossemica tra i corpi contro i significati coesi dell’urbanesimo, allora altre retoriche diventano capaci di ridefinire la facoltà di abitare i luoghi con nuove trame di senso. Tali pratiche possono produrre modificazioni intensive dell’esperienza dello spazio e creare territori di interscambio che smagliano i rapporti privilegiati del controllo – orditi dai flussi immateriali che disciplinano le singolarità – in nuove forme di reciprocazione. Si tratta di spaziare i brusii dei corpi che, agenti di trasformazione, suggeriscono un’altra spazialità antropologica.
Creare varchi nella scrittura della performatività collocandosi nel plasma oscillatorio della relazione spaziale, rifondare dinamiche slegate dalle urgenze della confezione, mettere a problema i paradigmi della spettatorialità: questo fanno Michele Di Stefano e la compagnia MK, sia quando agiscono sul palcoscenico sia nelle azioni del progetto Clima, “oggetto coreografico auto-organizzato con una modulazione fuori formato con chiunque (performer, passanti, pubblico generico) voglia essere istruito per generarlo”. Attraverso la creazione di un’Agenzia di Trasferimento Dati in cui acquisire indicazioni di movimento, i performer e i passanti iscritti da istruire si occupano della propria enunciazione corporea adeguandola allo spazio e alle incidenze del gruppo secondo una logica di adattamento.
Le performance di breve durata (5-15 minuti), riprodotte quotidianamente nel programma di festival, danno vita a “una costruzione ambientale e climatica, sintonizzata sulle condizioni esterne (gli ‘altri’ e lo spazio aperto) che cambiano continuamente. Le istruzioni di movimento sono un pretesto per avvicinare corpi differenti e permettergli di condividere lo stesso luogo nell’invenzione di una cronologia relazionale e non iconografica”. Si coinvolgono nuove forme di visibilità e invisibilità, interferenze che generano deviazione, tangenza, imprevisto emotivo in un’esplorazione del territorio – tangente a una ricerca che assume i connotati dell’indagine geopolitica – che al contempo disturba i sistemi collaudati del corpo (radicati anche nella cultura coreutica).
È un’erranza peripatetica prodotta da corpo e suono quella che compie Alessandro Carboni nelle sue performance. Residente a Hong Kong, dove conduce la ricerca pratico-teorica Performing Urban Complexity alla School of Creative Media, Carboni fa del suo corpo il vettore di una mappatura urbana capace di far svanire alcune parti della città, esagerarne altre, incorporarne il suo ordine (immobile), flussi e dinamiche in ridefiniti rapporti di scala (geografici e temporali).
Dopo i progetti Remapping Extreme Land, il ciclo Learning Curves, sviluppato sui canali d’acqua (Kaitak River, Hong Kong; Danshui River, Taipei; Shing Mun River, Hong Kong; Reno, Bologna; Magra, La Spezia; Lizhiwan Creek, Guangzhou), il recente As if we were dust presentato a Danza Urbana di Bologna e la residenza alla Kunsthal di Aarhus, Carboni prende parte alla berlinese Transmediale Capture all. All’interno della sezione Datafield, in cui artisti e teorici si interrogano sul concetto di “quantificazione”, Carboni presenta una lecture-performance basata sul tool di mappatura sonica-corporea dell’urbano da lui stesso ideato. Il dispositivo Em:toolkit processa i materiali e i dati spaziali raccolti e prodotti durante i lunghi periodi di soggiorno in aree urbane selezionate, combinando ricerca e applicazioni provenienti da etnografia, cartografia, geografia sperimentale, architettura, field-recording e composizione coreografica. Se i movimenti di critical cartography o le pratiche di mappatura partecipata marginalizzano il corpo nella rappresentazione dello spazio, Alessandro Carboni lavora attraverso pratiche di embodiment, facendo del corpo lo strumento per ripercorre dinamiche dello spazio e componendo un archivio di materiali come fossero “reportage performativi”.
Con lo sguardo rivolto a Francis Alÿs, il più grande flâneur contemporaneo, a Jeremy Deller e alla sua ricerca antropologico-sociale, a certe esplorazioni di Pierre Huyghe come nell’intreccio utopico-topografico di A journey that wasn’t e alla ricerca storico-acustica Surround me di Susan Philipsz, il performer Alessio Mazzaro crea progetti performativi immersi nel tessuto comunitario, intesi come pratiche esperienziali. Per Un lavoro per Camporovere (2014) – progetto artistico che ha preso forma di installazione, performance collettiva e radiodramma, lavorando sul nozione di testimonianza, Mazzaro ha voluto restituire l’immagine mancante dell’incendio doloso che nel ‘44 bruciò metà paese, attraverso i racconti orali dei testimoni. “Ho disposto due diffusori a tromba frontalmente”, afferma, “sulla linea di confine tra salvati e bruciati. Il giorno della performance i cittadini sono arrivati dai due lati del paese e si sono schierati formando due gruppi. Da subito hanno cominciato a ricordare storie e aggiungere pezzi che si sono sovrapposti all’audio, producendo, attraverso la memoria, un racconto acustico partecipato”.
In modo diversi, l’esplorazione dell’ambiente urbano come sfida alle rappresentazioni ufficiali, l’attenzione alle fluttuazioni dinamiche e alle trasformazioni fisiche e immateriali dello spazio divengono un campo per instaurare relazioni processuali e temporanee, una geografia in fieri, una molteplicità spaziale e temporale creato e ricreato nell’esperienza di osservazione e ascolto.
Piersandra Di Matteo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
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