Biennale di Venezia. L’opinione di Giulio Ciavoliello
Politically perfect più che politically correct. Così Giulio Ciavoliello definisce la Biennale di Venezia diretta da Okwui Enwezor. Perché tante critiche sono fatte da chi l’ha vista rapidamente nei giorni di preview, senza coglierne il senso di lungo respiro.
UNA BIENNALE LUNGA SEI MESI
All the World’s Futures è una mostra che vive ben oltre la staticità delle opere installate, vive molto di eventi e incontri che si svolgono fino a novembre, che rimangono ignoti agli addetti ai lavori giunti alla vernice. Pochi sono coloro che ci tornano. Non è una questione da poco, se si tiene conto del fatto che la dimensione performativa e dialogica è costitutiva della Biennale di Okwui Enwezor. Come sempre accade, chi era presente ha visto velocemente le opere disponibili e si è fatto un’idea dell’impostazione della mostra.
Si tratta di un modello espositivo non nuovo, ma che a Venezia trova la sua originale articolazione in un fondamento: la lettura e rilettura quotidiana de Il Capitale di Carlo Marx. Riprenderne il testo per dibatterlo pubblicamente è un modo di verificare quanto attuale o datato sia un testo “sacro” delle dottrine economiche. Sicuramente non è datato ed è estremamente aggiornato il capitale nella sua forza. Il capitale ha saputo adattarsi a esigenze sempre nuove, ha corretto e continua a correggere il tiro puntando a nuovi obiettivi di profitto. Si pensi all’unione di comunismo e capitalismo in Cina, inimmaginabile fino al tempo di Mao.
CAPITALE E SUSSUNZIONE
Il capitale è l’onnipresente rimosso dalle manifestazioni culturali di oggi. È vero che è frequente l’inclusione da parte dell’arte di aspetti riguardanti conflitti, ingiustizie, migrazioni, emergenze ambientali, implicazioni della globalizzazione, tutte questioni che attestano il rinnovamento del capitale, le sue capacità di adeguamento a nuove prospettive di conquista.
Tuttavia la centralità del capitale, che per alcuni può apparire la scoperta dell’acqua calda, non è stata mai posta come fulcro di una mostra così come ha fatto Enwezor. Poiché credo che il curatore sia tutto tranne che un ingenuo, credo anche che in lui ci sia una consapevolezza: la sua Biennale è una manifestazione della pervasività del capitale, al livello più alto e sofisticato; l’establishment non è stato mai così accogliente.
Il capitale, nella magnanimità di mercato e istituzioni di cui dispone, amplifica criticità e senso di molte forme di opposizione, assorbe contraddizioni creando particolari forme di coesistenza. Venezia 2015 ne è un esempio mirabolante.
La Biennale, con l’ausilio dei padiglioni nazionali, mostra una serie di realtà negative, preoccupanti, vissute in buona parte del mondo, e in più sperimenta soluzioni di convivenza sociale, sopperisce almeno temporaneamente a lacune della politica.
RELIGIONE E GENOCIDI
Il centro storico di Venezia non dispone di un luogo adeguato di preghiera per i musulmani. Vi supplisce il padiglione dell’Islanda, con Christoph Büchel, che ha trasformato in moschea la Chiesa di Santa Maria della Misericordia, chiusa al culto da più di quarant’anni e di proprietà privata. In questo modo ci spinge a ricordare – si spera – che la storia dell’umanità è colma di inversioni di segno, anche religioso. In tutta l’area mediterranea sono numerosi i casi di trasformazioni di edifici da luoghi di culto di una dottrina a luoghi di culto di altre dottrine. La storia reale di luoghi e popolazioni ha visto avvicendarsi tante volte chiese, moschee, sinagoghe.
In laguna, in occasione della Biennale, all’Isola degli Armeni più di una volta si sono viste mostre belle e interessanti, suscettibili di premiazione. Quest’anno, poco dopo che Papa Francesco ha parlato a tutti di genocidio armeno, quando le cancellerie occidentali riprendono a tralasciare la questione per non avere troppi problemi con la Turchia, la giuria della Biennale ha consegnato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale alla Repubblica dell’Armenia.
Questo fa venire in mente altri genocidi e diaspore, e forse mai in una grande mostra internazionale ha avuto una posizione così primaria il lavoro di Fabio Mauri, con i suoi riferimenti all’Olocausto. Una posizione centrale ai Giardini l’ha anche colui che per primo, grazie a forme di arte inchiesta, ha portato in luce le contraddizioni del mondo dell’arte, per esempio assetti proprietari e origine dei guadagni di chi compone un board museale. Mi riferisco a Hans Haacke.
ARTISTI EVASORI
Alle Corderie troviamo una specie di limbo fiscale, illegale eppur tollerato. Si realizza il paradosso di un ente ufficiale che mette in pratica al suo interno, mostrandolo, un esempio di evasione, piccola ma di fatto consentita. Il denaro versato per le copie di From the Horde to the Bee, il libro di Marco Fusinato che accoglie una selezione di copertine di pubblicazioni dell’archivio Primo Moroni, che serve giustamente a finanziarlo, esula dagli obblighi di tracciabilità. L’artista afferma: “Per me è un’operazione da Robin Hood, direi anzi proprio di riciclaggio di denaro sporco”, come ha dichiarato a Simone Mosca su La Repubblica del 12 maggio scorso.
Ho preso in considerazione per lo più opere e questioni che hanno trovato notevole spazio anche su media non di settore, proprio per un interesse ampio che coinvolge la cronaca. Le ho richiamate per far notare come in questo momento Venezia con la Biennale sia un laboratorio politico avanzato, con gli occhi del mondo puntati addosso.
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