Cinema e interattività. L’editoriale di Davide Ferrario
L’interattività degli Anni Settanta era immaginata come possibilità del pubblico di non subire passivamente una narrazione. Oggi lo spettatore è completamente padrone del modo in cui vede il film. Solo che non si tratta di un progresso… L’editoriale di Davide Ferrario.
Per chi è cresciuto negli Anni Settanta, il termine ‘interattività’ suonava bene, come una promessa di democrazia e di affermazione libertaria contro l’autoritarismo del potere, di cui il Testo Artistico Intoccabile era il simulacro. A teatro si abbattevano i confini tra palco e platea, in letteratura le sperimentazioni dissolvevano l’idea di romanzo tradizionale, nell’arte decine e decine di artisti facevano a pezzi le classiche coordinate della fruizione delle opere, rendendo spesso gli spettatori parte del loro lavoro.
Al cinema, luogo di moltissime utopie, tutto questo era molto più difficile. Tecnicamente, era quasi impossibile interrompere il flusso di un film o immaginarsi un modo in cui il pubblico potesse interagire con esso. La carica rivoluzionaria si scatenava così sul contesto: era l’epoca dei festival senza premi, dei dibattiti nei cineforum, dei registi “processati” in pubblico. Poi sono arrivati gli Anni Ottanta e siamo tutti tornati a più rassicuranti modelli di godimento estetico. L’interattività si è spostata dal piano espressivo a quello tecnologico, sulla dimensione ludica più che su quella artistica. E all’improvviso ci siamo ritrovati dove non avremmo mai immaginato.
Si cominciò con la pubblicità. Ricordate la commovente, quasi patetica battaglia di Fellini per combattere gli spot durante la trasmissione dei film in tv? Ci fu perfino un referendum, nel 1995. Naturalmente vinsero a grande maggioranza i fan della pubblicità. Allora – così come con tutto quello che riguardava la tv commerciale – non si capiva che si stava infilando un cuneo in un sistema percettivo che aveva resistito per cento anni, un cuneo che avrebbe divaricato sempre più il rapporto tra autore del film e spettatore. Contestualmente arrivarono le videocassette, che consentivano una forma di controllo sul flusso narrativo attraverso la pausa e il fast forward.
Oggi un film si può vedere in mille modi, anche sullo schermo di un telefonino ridicolmente piccolo. Lo si può fermare, spostare in avanti o indietro a velocità multipla, lasciare in sospeso. Chi ha un decoder MySky può farci praticamente tutto, compreso vederlo in una lingua diversa, con sottotitoli o no. L’interattività degli Anni Settanta era immaginata come possibilità del pubblico di non subire passivamente una narrazione. Oggi lo spettatore è completamente padrone del modo in cui vede il film. Solo che non si tratta di un progresso, perché il cinema è stato degradato a puro bene di consumo, semplice entertainment da accendere e spegnere a piacimento.
Per chi, come me, ha scelto per vocazione di raccontare storie al cinema, questo comporta un cambiamento epocale. Anche solo qualche anno fa, realizzare un film assomigliava a fare un discorso. Sapevi che ci sarebbe stato un pubblico ad ascoltarti e quindi era fondamentale che quello che avevi da dire fosse importante e raccontato bene. Oggi questa aura del cinema è pressoché scomparsa. Qualsiasi arte della narrazione, di fronte ad ascoltatori disabituati a concentrarsi, convinti che sia un loro diritto fare e disfare la continuità di un effetto espressivo, è destinata a morire. Vince non chi ha qualcosa da dire, ma chi produce il volume più alto, l’eccitazione più frenetica. La soglia di attenzione su Internet, dicono gli esperti, è di 8 secondi.
Ovviamente si può obiettare che le arti cambiano e si trasformano, ed è proprio quello che sta succedendo. Infatti non mi lamento. Dico solo che dovremmo smettere di chiamare cinema quella cosa 2.0 che lo sta sostituendo. L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo la famosa definizione di Walter Benjamin, partiva comunque dalla definizione dell’opera in quanto tale. Oggi, nel passaggio di potenza al quadrato di quel processo, l’opera è un simulacro che si dissolve nel suo consumo tecnologico.
Davide Ferrario
regista
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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