A CHI INTERESSA UNA MOSTRA A EXPO?
Mentre visitavo Il tesoro d’Italia, la mostra curata da Vittorio Sgarbi per Eataly a Expo 2015, mi sono chiesto più volte se davvero avrei poi avuto voglia di scriverne. Riluttavo per più motivi. In primo luogo perché duellare su temi stilistici o curatoriali può sembrare futile, oggi in Italia. Poi perché mi sarebbe stato difficile evitare striduli moralismi e ovvie contestazioni: della mostra si era detto di tutto e di peggio già prima che aprisse, e io stesso avevo firmato un appello contro il trasferimento ad hoc del San Paolo di Masaccio, conservato nel Museo pisano di San Matteo.
E poi perché la mostra è casuale, allestita in fretta e può sembrare a tratti irrispettosa del prestigio di opere e artisti. Non importa se il Tesoro d’Italia raccoglie singole opere e manufatti persino meravigliosi: la trascuratezza con cui li mette in scena rende contingente ogni dettagliato giudizio di merito.
Dunque perché scriverne? Certo non per polemizzare con Sgarbi, cosa che ritengo di nessun interesse. E allora?
UN DIVERSO PADIGLIONE ITALIA
Nel migrare da una sala all’altra di Tesoro d’Italia, nello sfarzo così poco attraente di velluti e broccati a noleggio, immaginavo una diversa Expo. Un Padiglione Italia affidato a un perspicace architetto, a Renzo Piano ad esempio, concepito a mo’ di museo temporaneo per accogliere una mostra di storia dell’arte italiana dalle origini a oggi, coinvolgente e scientificamente inappuntabile.
Attorno alle sale centrali, dedicate alle opere, avrebbero potuto esserci sale riservate alle più innovative tecniche e tecnologie di conservazione, restauro, ricerca e diffusione digitale delle opere d’arte messe a punto in Italia negli ultimi tre o quattro decenni. Niente Padiglione Italia (o meglio simil-Cina) quale lo vediamo oggi. Niente Albero della vita. Niente Tesoro d’Italia da Eataly.
SGARBI E UNA CERTA IDEA DI COLLEZIONISMO
La mostra di Sgarbi riflette tratti antropologici di un determinato collezionismo italiano. Commentarla può essere utile a ricordarci che una mostra è pur sempre “lavoro specializzato”, e che le nostre attitudini al rigore, all’attendibilità, alla cura informeranno il mondo di ciò che siamo e diventiamo. Saranno nostre messaggere, accattivanti o screditate.
Attorno a Tesoro d’Italia aleggiano un pregiudizio e una sommarietà per così dire padronali. Cosa vuol dire “possedere” un’opera o essere mecenati? Questa è pur sempre una buona domanda da cui iniziare. La risposta non è ovvia, come si può supporre, né ineluttabilmente connessa alla sola condizione dell’ampia ricchezza personale o familiare. Una collezione concepita come “tesoro”, dunque selettiva e per più versi emozionale, non rimanda a attitudini competitive. Collezionare non equivale a sfoggiare.
Esistono una profonda serietà, un’esigenza redistributiva e devozionale inscritte nella più munifica committenza dei secoli aurei della nostra storia dell’arte. Questa semplice verità sarebbe dovuta rientrare a pieno diritto nel progetto di una mostra di tema identitario.
Giovanni Rucellai, mercante fiorentino, amico, collezionista e committente di artisti come Domenico Veneziano, Filippo Lippi, Verrocchio, Pollaiolo, Andrea del Castagno e Paolo Uccello, ammette una triplice motivazione. “[Le opere d’arte] m’ànno dato e danno grandissimo chontentamento e grandissima dolcezza, perché raghuardano in parte all’onore di Dio e all’onore della città e a memoria di me”. Non si collezionano opere d’arte (né tantomeno artisti) per il piacere di assoggettare e piegare: ma per l’“onore” proprio e altrui – della “città” che ci ha dato i natali, ad esempio, o della divinità in cui crediamo. Questo afferma Rucellai.
UN ALLESTIMENTO DISCUTIBILE
Nelle stanzette che articolano il percorso di Tesoro d’Italia tutto è onusto, dispendioso, cadaverico: commemora il denaro e si prefigge di conferirgli gravità e decenza. I dazebao degli sponsor inneggiano alla munificenza a ridosso di opere severe, persino pauperiste come I funerali del pescatore di Cagnaccio di San Pietro, esposte nel tentativo di tenere insieme “umile Italia” e arredi di lusso. Le scelte non sono istituzionali, come forse avrebbero dovuto e potuto essere nel contesto di una mostra semiufficiale, ma tanto più idiosincratiche quanto più ci avviciniamo al moderno e contemporaneo. La selezione novecentesca è inattendibile sia sotto profili antologici che di scelta delle singole opere, anche se accogliamo sperimentalmente e per un attimo il suggerimento di una “linea” italiana figurativa e strapaesana – Maccari, Soffici e Rosai i progenitori entre-deux-guerres, al più Cavaglieri.
Sgarbi ripropone se stesso nelle vesti del personaggio-conoscitore: ma la mancanza di distacco autocritico trasforma la performance in parodia. Prima di contestarlo aspramente riconosciamogli il merito della mobilità: viaggia da sempre per musei minori e collezioni decentrate o inespugnabili. Tuttavia la sua stessa concezione di connoisseurship è parrocchiale. Riconduce lo storico dell’arte alla macchietta tardo-ottocentesca dello sfrecciante Paolo Tarsis in giro per pievi. Malgrado la pretesa di gransignorilità, molte cose in Tesoro d’Italia appaiono di seconda o terza mano: dalla “scrittura curatoriale” agli arredi in stile al titolo stesso della mostra.
UN LOGORO CANOVACCIO
Ricapitoliamo. Eataly invita Sgarbi a curare una mostra nel proprio padiglione. È un’iniziativa potenzialmente meritevole. Il Padiglione Italia ufficiale è in stracci, manca in Expo un’adeguata divulgazione della cultura artistica italiana e Arts and Foods, curata da Germano Celant alla Triennale, non è stata concepita per colmare la lacuna.
Sia pure promossa e finanziata da un committente privato, Tesoro d’Italia avrà dunque uno status semipubblico e assolverà inevitabilmente compiti diplomatici: non è (non sarebbe stato) il caso di recriminare o fare inutili polemiche sulla provenienza dei capitali. Tra le premesse più incoraggianti sta l’ubiquità del curatore e la sua affidabile conoscenza del patrimonio diffuso. Bene.
Che dire adesso, a esposizione avviata? L’esito è molesto. Il Tesoro d’Italia è una mostra messa assieme con temeraria sveltezza. Non contribuisce a forgiare una storia dell’arte migliore né tantomeno ad accreditare nel mondo l’immagine di una penisola ingegnosa e versatile, abitata da studiosi seri e capaci. Peccato. Un “ambasciatore per le Belle arti” – tale Sgarbi nel contesto di Expo 2015 – dovrebbe tenere maggior fede all’ufficialità del proprio ruolo: mai presentarsi a cena senza cravatta o affidarsi a logori canovacci.
Michele Dantini
www.expo2015.org
www.eataly.net/it_it/eataly-a-expo/
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