Inpratica. Una sopravvivenza (IV)
Se l’Italia è comprensibile, come aveva già capito Leopardi, solo e unicamente in quanto spettacolo a cui è impossibile partecipare, allora non resta che scavare. Scavare la sopravvivenza. E siamo alla quarta parte del saggio a puntate di Christian Caliandro per la rubrica “Inpratica”.
“Chi ha rovinato il mondo?”
George Miller, Mad Max-Fury Road (2015)
La sopravvivenza nello scenario: “La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’ interno. (…) …voi non potete godere di Roma, e delle altre città grandi, se non come puro spettatore: e lo spettacolo del quale v’è impossibile di far parte, v’annoia al secondo momento, per bellissimo che sia” (Giacomo Leopardi, Lettera a Carlo Leopardi, Roma 6 dicembre 1822).
Se l’Italia è comprensibile, come aveva già capito Leopardi, solo e unicamente in quanto spettacolo a cui è impossibile partecipare, spettacolo oltremodo noioso (e crudele, e stupido), allora non resta che scavare questa sopravvivenza. Capire, spostare lo sguardo dallo scenario alla sopravvivenza. Uscire dal teatro – spegnere lo schermo. Valutare almeno la effettiva possibilità di questa uscita e di questo spegnimento. Una sopravvivenza presuppone la scoperta di una forma di vita: diversa, alternativa, contraria, opposta. E se si cerca il contrario, occorre poi perseguirlo: il contrario dello spettacolo, della rappresentazione, dell’annullamento di ogni funzione, della comunicazione fine a se stessa. Non di contenuti occorre parlare dunque, ma di forma: la forma è tutto, in questo particolare senso. Negare la simulazione perciò non può assolutamente significare ricadere in una differente simulazione: non si combatte il nemico parlando la sua stessa lingua: questa è un’illusione, l’ennesima. Lo si combatte invece in modo davvero efficace adottando schemi di ragionamento e di vita radicalmente diversi, fuoriuscendo da una mentalità e da un immaginario e praticandone di nuovi. Diffondendone di nuovi. Dice che è vago: non è vago se si ragiona sulle implicazioni di tutto questo (e comunque chi se ne frega di chi lo dice).
Evolversi vuol dire far fronte a necessità e problemi cambiando se stessi, trasformando se stessi, adattando se stessi: evoluzione è una continua elaborazione del trauma di vivere. Evolversi non vuol dire rinunciare a se stessi, ma costruire se stessi continuamente; non vuol dire rinunciare alle proprie aspettative, ma solo a quelle che non sono le nostre. E che non lo sono mai state. È vago?
***
Detto questo, si capisce quanto poco rilevante diventi lo statuto attuale dell’arte contemporanea.
Ma comunque.
Occorre che le opere d’arte mutino aspetto e funzione. Quando uno spettatore entra nello spazio “mentale” di una mostra (in galleria, nel museo, ecc.) istantaneamente si predispone in una maniera abbastanza specifica nei confronti dei contenuti esposti, e a cui è esposto. È diffidente, intimidito, irrigidito. Il contesto è prima di tutto un linguaggio – fatto di convenzioni culturali e prima ancora sociali – che distorce e comprime inevitabilmente tutte le buone intenzioni delle opere e dei loro autori. Per liberare questo nuovo-antico ruolo, questo scopo, è necessario dunque bonificare e trasformare radicalmente il contesto. Al posto della presentazione, dell’esposizione (dell’ostensione?), bisogna che processi oggetti azioni interagiscano sul serio con le abitudini delle persone, delle comunità, con la loro vita quotidiana – alla pari con gli altri oggetti utensili servizi.
***
La maggior parte degli operatori di questo settore sono allenati a un codice basato su un gioco di specchi. Occorre recuperare una meravigliosa e severa estraneità a tutto questo:
così fuorimoda,
così rozzo,
così maleducato,
così fuori luogo,
così inopportuno,
così disorientante,
così povero,
così piccolo,
così nuovo,
così semplice,
così arcaico,
così reale,
così fondamentale,
così italiano.
Abitiamo un sistema chiuso, regolato a sua volta da un sistema linguistico che non intrattiene molti rapporti con il mondo circostante. Forse è sempre stato così – ma è adesso che questo distacco risulta particolarmente inopportuno e pericoloso. Una concrezione concettuale e intellettuale: un’accumulazione gigantesca di informazioni, certamente utile e interessante, ma al tempo stesso desolante perché non unificata, non integrata da una visione, da un’interpretazione. La dismissione delle – e dalle – responsabilità domina i cervelli e le identità. Questa deresponsabilizzazione costituisce la base solida, cupa, livida della nostra attuale condizione: la responsabilità è svanita dall’arco dei valori, schiacciata dai concetti di “colpa” e dalla figura ancora più ambigua della “vittima”. Ma i responsabili, dove sono? Chi sono? Chi oggi si assume la responsabilità di qualcosa, di fermare qualcosa, della propria vita o di quella dei propri coesistenti? Tra l’altro, bisogna considerare che se tutti sono soli la stessa necessità della responsabilità – valore civico e sociale come nessun altro – viene quasi automaticamente a decadere. Una nazione, un continente, un pianeta di bambini è popolato da irresponsabili. Un popolo di irresponsabili è quello in cui, non a caso, manca la percezione dell’altro.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati